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«Quel reato ha creato solo paralisi. Mi sono sentito un perseguitato»


Mario Oliverio, ex governatore calabrese del Pd, è una delle vittime eccellenti dell’abuso d’ufficio: nel 2020, sul finire del primo mandato in Regione, fu raggiunto da un avviso di garanzia con un obbligo di dimora e non si ricandidò. Un anno dopo – quando ormai la Calabria aveva cambiato colore – l’assoluzione.

Oliverio, oggi quel reato non esiste più. Contento?

«È un primo passo nella giusta direzione. Finalmente si cancella un reato che per la pubblica amministrazione ha determinato solo sofferenze e paralisi: su oltre 5mila fascicoli aperti, le condanne si contano sulle dita di una mano. Una situazione paradossale che oltre ad aver penalizzato gli amministratori, ha creato uno squilibrio nel rapporto tra giustizia e democrazia. Non a caso i sindaci, tutti, anche quelli del Pd, chiedevano che l’abuso d’ufficio venisse cancellato».

Perché dice un primo passo?

«Perché per rimettere in equilibrio il rapporto tra potere giudiziario e legislativo c’è bisogno di ben altro. Nel corso di questi anni l’abuso d’ufficio è stato usato da alcuni pm cosiddetti “d’assalto” come un grimaldello, un mezzo per aprire fascicoli di indagine che hanno lasciato lacrime e sangue, finiti anni dopo con l’assoluzione in oltre l’80% dei casi. La mia vicenda è significativa, ma non è per il mio vissuto che ho maturato questa convinzione. Piuttosto, quella è stata la conferma dell’uso improprio del codice penale da parte di settori della magistratura».

Dunque il Pd, il suo partito, sbaglia?

«Il Pd, o almeno buona parte di esso, purtroppo è rimasto fermo a una posizione subalterna a certi settori fondamentalisti della magistratura. Mi auguro che l’approvazione di questa norma richiesta da tutti i primi cittadini apra una riflessione più distaccata. Decenni fa perfino Emauele Macaluso avvertiva che bisognava liberarsi di questo handicap, di questa subalternità, se si voleva dar vita a una forza realmente innovatrice e riformista».

La separazione delle carriere sarebbe un altro passo in questa direzione?

«Assolutamente sì. È una delle questioni centrali per determinare un nuovo equilibrio necessario tra politica e giustizia. Mi auguro che si vada avanti e che la riforma arrivi in porto rapidamente».

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«Sono argomentazioni che rispetto ai dati lasciano il tempo che trovano. I dati li ho citati prima: oltre l’80% di assoluzioni, condanne che su 5mila indagini si contano sulle dita di una mano. Questi sono i fatti. Poi c’è il tema di una riforma morale della politica, ma non si può affidare alla clava giudiziaria. Anzi: chi fa il pasdaran giustizialista di solito lascia le porte aperte ai processi più immorali. E contribuisce alla delegittimazione della politica tutta».

Si parla di un nuovo reato che in parte sostituirebbe l’abuso d’ufficio: peculato per distrazione. Che ne pensa?

«Bisogna essere chiari. Evitiamo che ciò che si caccia dalla porta principale rientri da quella di servizio. Un quadro di riferimento normativo è necessario, ma non può essere una riproposizione in modo mascherato di ciò che ha determinato la messa in discussione di amministratori locali validissimi».

E il traffico di influenze? Giusto ridimensionarlo?

«Sì. Anche quella è una norma dai confini molto labili, che è stata utilizzata per attivare procedimenti giudiziari senza che vi fossero certezze indiziarie».

Col senno di poi, rifarebbe la scelta di non ricandidarsi?

«Ho fatto quella scelta perché avvertivo che nei miei confronti si perseverava con quello che, anche dalla Cassazione, è stato riconosciuto come un evidente intento persecutorio. Lo dicono i fatti e le sentenze, non i complotti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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