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«Nella Carta le basi per la solidarietà»


ROMA Un monito, un ammonimento, un richiamo. Comunque lo si voglia definire, ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato il proprio messaggio nel corso di un evento del “Centro Orientamento Immigrati — Fondazione Franco Verga” a Milano, nella sede dell’Ambrosianeum. E ha ricordato, proprio nel giorno in cui la nave “Libra” della Marina Militare italiana ha trasportato il primo gruppo di migranti nei centri allestiti in Albania, come la storia italiana da sempre sia «fatta di emigrazione e di immigrazione». Solo un caso, o forse no. Di certo, il presidente non ha lesinato parole di elogio per le realtà che si impegnano «per l’integrazione», come fa a Milano l’Associazione Verga, perché inverano «gli obiettivi di solidarietà della Costituzione». Come a dire che lo spirito ultimo e più autentico della nostra Carta stia nel porgere la mano e aprire le porte a chi ne ha bisogno. E qui il plauso alla città meneghina, a «Milan che la ga el cor in man» l’omaggio in dialetto di Mattarella, perché nel capoluogo lombardo «l’impegno per la coesione sociale, l’accoglienza, il progresso, l’integrazione, il divenire della cittadinanza, è attività permanente». Parole che son suonate come una presa di posizione chiara nel dibattito politico, ancora aperto fuori e dentro la maggioranza, su un possibile ampliamento per l’accesso alla cittadinanza, che vede sul tavolo varie proposte, dallo Ius Scholae allo Ius Italiae. Ed è un caso, o forse no, che il Capo dello Stato abbia citato l’esempio di Franco Verga, dei suoi corsi di alfabetizzazione organizzati nel 1964 come strumento di integrazione. «Ascoltare don Mapelli ricordare che, oggi, “insegnare la lingua e la cultura italiana, accompagnare i giovani e gli adulti che arrivano sul nostro territorio a divenire cittadini significa costruire la città”, riporta a quei tempi», la riflessione.

GLI IMMIGRATI DI OGGI E DI IERI

Gli immigrati, ricorda il presidente della Repubblica, oggi «non vengono più dal Mezzogiorno d’Italia, ma da più lontano, da Paesi europei come l’Ucraina, aggredita da una guerra insensata, dai Balcani». E pure «da altri continenti, gravati anch’essi da condizioni insostenibili». Si fugge anzitutto per necessità, è il messaggio dell’inquilino del Quirinale. La parola chiave resta «integrazione». L’invito di Mattarella è partito da un excursus storico sul nostro Paese, condito di numeri: «Trenta milioni gli italiani partiti per l’estero tra l’unità d’Italia e il secolo scorso — ha detto il Capo di Stato — Sei milioni, ora, quelli che vivono stabilmente all’estero, oltre un milione e trecentomila gli italiani che si trasferirono dal Sud al Nord negli anni ‘60. In dieci anni, dal 1951 al 1961, trecentomila nella sola Milano». Insomma, un invito a scendere a patti anzitutto con la propria storia. Costellata, spiega Mattarella, da tensioni quasi fisiologiche tra nuovi arrivati e antichi residenti, seppur tutti italiani, in una contrapposizione che «oggi appare incomprensibile e ormai consegnata alle cronache di quegli anni» e che ai tempi fu risolta aprendo un dialogo nelle periferie urbane «tra vecchi e nuovi milanesi, tra immigrati e ambiti sociali popolari, spesso espulsi dai centri storici che avevano abitato». Oggi, per Mattarella, si può dire con certezza che quegli indesiderati «hanno contribuito a fare la storia» del capoluogo lombardo.

Il presidente della Repubblica è tornato dunque a dire la propria. Lo aveva già fatto in passato ammonendo l’esecutivo e la politica tutta sull’abuso della decretazione d’urgenza, e ancora contro l’assolutismo della maggioranza, le morti sul lavoro e il protezionismo. Senza mai la volontà di mescolare politica e istituzione, le sue “raccomandazioni” sono state, di volta in volta, per maggioranza e opposizione, perché su alcuni temi non c’è colore politico che tenga. E la solidarietà e l’integrazione fanno parte di quelli. Questo il senso ultimo del suo intervento da Milano. A buon intenditor, si dice, poche parole.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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