C’è una domanda che si impone e si fa assordante ai piani alti del governo. E si può riassumere così: «Chi mandiamo a Washington a parlare con Trump? E se vince Harris?». È la nomina più ambita, il sogno proibito di ogni diplomatico. L’ambasciata italiana all’ombra della Casa Bianca, la finestra da cui studiare e anticipare le mosse del più importante e ingombrante alleato italiano.
I fatti, per cominciare. Mariangela Zappia, attuale inquilina di Villa Firenze, rodatissima diplomatica, è formalmente in pensione. La sua nomina a capo della missione negli Usa, scaduta prima dell’estate, è stata prorogata con un decreto ad hoc. Da mesi a Roma ci si interroga su chi dovrà sostituirla.
QUI ALBANIA
Lo fa anche Giorgia Meloni. E si era fatta più di una semplice idea, la presidente del Consiglio attentissima agli sviluppi americani e con lo sguardo puntato sul voto di novembre. Fabrizio Bucci, ambasciatore a Tirana, in Albania, può essere l’uomo giusto per Washington? Meloni crede che abbia le carte in regola, ne ha parlato con il ministro degli Esteri Antonio Tajani in questi mesi. Stima il diplomatico promosso di recente ad ambasciatore di grado.
A lui ha affidato la delicatissima (e contestatissima) missione dei centri di riconoscimento per migranti in Albania, pronti forse, con cinque mesi di ritardo, al primo varo a inizio ottobre. È convinta sia un’operazione politica riuscita, altroché. Sarebbe un premio, dunque, la super-nomina al diplomatico in rampa di lancio. Conosce bene l’America Bucci, ha già lavorato a Washington, dove seguiva i rapporti con il Congresso. Insomma ci sa fare.
Era un’idea concretissima. Come anche il proposito di Tajani, d’altro canto, di inviare a Washington Francesco Genuardi, suo capo di gabinetto, diplomatico di esperienza e molto apprezzato dalla macchina. Un jolly al ministero che il vicepremier per ora potrebbe preferire tenere al suo fianco.
Questi i nomi in campo. Poi, nelle ultime settimane, una frenata. E la convinzione via via più forte, della premier e del suo ministro, che accelerare ora sia una pessima scelta. Incalzata di continuo dai giornali e dalle opposizioni Meloni cerca di restare fuori, almeno in pubblico, dalla contesa Harris-Trump.
Non è un mistero per chi faccia il tifo la leader della destra italiana. Ma non vuole entrare a gamba tesa, come fa invece Matteo Salvini, nelle urne di una nazione sovrana, «le interferenze le lasciamo alla sinistra» ripete ai suoi colonnelli del partito che pure scalpitano, vorrebbero darsi da fare. Come Andrea Di Giuseppe, il pontiere con “Donnie”, che a un evento elettorale di fine estate ha incontrato Trump e ha riferito entusiasta il responso alla leader. «Giorgia? She’s great, è grande».
Tirata per la giacchetta, contestata dalle opposizioni per la photo-opportunity all’Atlantic Council di New York con l’ipertrumpiano Elon Musk, la premier prova a restare in equilibrio. E si è convinta insieme a Tajani che anche la super-nomina di Washington può attendere. Meglio capire prima che aria tira a Pennsylvania Avenue. Se vincesse Harris una proroga limitata di Zappia, rimasta in carica per i quattro anni dell’era Biden, sarebbe un’opzione.
Non facile perché già oggi Zappia è una nomina “esterna”: è andata in pensione e per rinnovarla è servito un decreto cucito su misura sulla scia di quello con cui Renzi nominò nel 2016 Carlo Calenda a capo della rappresentanza a Bruxelles, fra mille malumori degli ambasciatori di rango. Se vince Trump, potrebbe riprendere forza l’opzione Bucci (ma salgono anche le quote per un suo trasferimento a Berlino, sede che a breve lascerà Armando Varricchio). La carta dei centri per migranti albanesi potrebbe fare breccia nel cuore del Tycoon.
I MOVIMENTI
Si vedrà. Il mantra è: niente passi falsi e false partenze. E questo confronto sulla nomina americana proseguito sotto traccia è un altro sintomo dell’attesa e i timori con cui il governo aspetta l’esito del voto Usa. Si preannuncia comunque una stagione di grandi novità alla Farnesina. Tra feluche in movimento — come Maurizio Greganti, stimatissimo vicecapo alla Direzione affari politici — o Giorgio Marrapodi, a capo della missione in Turchia, entrambi in lizza per una sede di peso in Europa: Berlino, Parigi, Londra, Bruxelles. Washington però è un’altra storia. Da scrivere solo dopo il 5 novembre.
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