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«Trasferimenti illegali di armi». Il doppio fronte dell’Alleanza


È un doppio fronte e ormai nessuno prova a negarlo. Al vertice di Washington la Nato lancia un duro avvertimento alla Russia di Vladimir Putin. Tradotto in un salto di qualità nel sostegno all’Ucraina aggredita.

L’impegno su un pacchetto di 40 miliardi di dollari in aiuti. Sul piatto il presidente americano Joe Biden mette un nuovo tesoretto, 225 milioni di dollari, per rifornire Volodymyr Zelensky di armi e munizioni: una batteria antiaerea Patriot, missili Stinger, proiettili per artiglieria ad alta mobilità come l’Himars. Ma è perentorio e severo anche il monito rivolto alla Cina di Xi Jinping, ormai parte attiva nella causa di conquista russa in Ucraina. Al suo terzo giorno il summit dell’Alleanza atlantica allarga gli orizzonti, accoglie i partner dell’Indo-Pacifico. Al fianco di Biden, il premier neozelanese Christopher Luxon, il premier giapponese Fumio Kishida e il vicepremier australiano Richard Marles condannano «i trasferimenti illegali di armi dalla Cina alla Russia».

Nella dichiarazione finale dei leader Nato la condanna è ancora più esplicita, per certi versi inedita: «La Cina non può consentire la più grande guerra in Europa nella storia recente senza che ciò abbia un impatto negativo sui suoi interessi e sulla sua reputazione».

LE REAZIONI

Non tarda ad arrivare una violenta reazione da Pechino: «La Nato smetta di incitare allo scontro e alla rivalità, mantenga il suo ruolo come organizzazione difensiva regionale nel Nord Atlantico». Come a dire: none of your business, non sono affari vostri. Naviga in queste acque burrascose l’Alleanza radunata all’ombra della Casa Bianca. E mette nel mirino dei suoi radar, per la prima volta in modo così esplicito, il soccorso cinese all’invasione armata russa in Ucraina, a due anni e mezzo dalla marcia su Kiev.

È un summit di passaggio — sospeso sul destino incerto del padrone di casa, Joe Biden, e la sua candidatura in bilico contro Donald Trump per le elezioni di novembre — e al tempo stesso storico. Si respira la gravità del momento. Una finestra che rischia di chiudersi: con Donald Trump alla Casa Bianca, la difesa occidentale della causa ucraina potrebbe cedere, allargare le crepe già aperte da una parte all’altra dell’Atlantico. Zelensky lancia un appello accorato affiancato dal segretario uscente Jens Stoltenberg. «Se vogliamo vincere abbiamo bisogno che i nostri partner eliminino tutte le restrizioni» sugli attacchi con le loro armi in territorio russo». Chiede il permesso di utilizzare le nuove partite di armi occidentali per colpire in profondità le linee nemiche. Non che l’Ucraina abbia ottenuto poco, a questo summit. La nuova tranche di aiuti finanziari da 40 miliardi, ultima boccata d’ossigeno prima che il rebus Trump si sciolga a novembre. Insieme, armi e munizioni decisive per una nuova controffensiva. Decisivi i caccia militari F-16, già in viaggio verso l’Ucraina dopo il via libera dell’amministrazione Biden. Non finisce qui. La decisione di stazionare in Germania missili da crociera a lungo raggio, raggiunta con un patto tra Berlino e Washington, è un affronto che manda su tutte le furie il Cremlino: «Daremo una risposta militare», minaccia il ministero degli Esteri.

LA DETERRENZA

Non aiuta a calmare le acque l’intesa siglata tra Italia, Germania, Francia e Polonia per la produzione di missili cruise a lunga gittata, capaci di colpire a distanza di 500 chilometri. Vietati dal vecchio trattato Inf che regolava i rapporti tra Usa e Unione Sovietica ai tempi della Cortina di ferro, ora non lo sono più: Trump ha stralciato quell’accordo nel 2019. «Vogliono tornare alla Guerra Fredda», batte i pugni, di nuovo, il governo russo. Sono ore di decisioni critiche. Delicatissima la questione delle regole di ingaggio per le nuove armi spedite al fronte ucraino. Il neo-premier inglese Keir Starmer, al debutto internazionale al summit Nato, ha dato il via libera alla resistenza per colpire il territorio russo. Sulla carta, la posizione italiana resta contraria: «Devono essere usate sul territorio ucraino», mette in chiaro il ministro degli Esteri Antonio Tajani da Washington. Difficile serrare i ranghi in un’Europa scossa dalle turbolenze politiche. Dove tiene banco il caso Orban, il premier ungherese che stringe mani a Putin e Xi con i galloni di presidente di turno del Consiglio Ue. A Washington è isolato. «Non parla a nome degli ucraini», lo gela il consigliere per la Sicurezza nazionale Sullivan. Zelensky cala il sipario: «Non tutti i leader possono fare i mediatori». Il leader magiaro alza le spalle e prepara già il prossimo affronto: la visita nella residenza di Mar-a-Lago a Donald Trump. L’elefante nella stanza al summit americano.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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