È arrivato il momento della verità per i centri per migranti in Albania, scommessa politica e personale della premier Giorgia Meloni. La prossima settimana è prevista l’inaugurazione delle due strutture, al porto di Schengjin sulla costa e a Gjader, nell’entroterra, che dovranno ospitare i migranti diretti in Italia e soccorsi nel Mediterraneo. Operazione imponente — dal costo di circa 600 milioni di euro in cinque anni — pronta a partire con cinque mesi di ritardo sulla tabella di marcia e tornata in queste ore al centro dello scontro politico. Anche perché non mancano incognite e remore ai piani alti del governo.
Centri migranti in Albania, Piantedosi: «Si parte la prossima settimana, ma non sono Cpr»
LE TAPPE
Con ordine. Questione di giorni, ha detto ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi al festival del Foglio, e i primi migranti saranno trasferiti nelle strutture albanesi nate dall’accordo siglato fra Meloni e il presidente Edi Rama. Circa 400 in una prima fase, «mi recherò in futuro per fare una ricognizione» avvisa il titolare del Viminale. E poi rispondendo alle critiche che montano dalle associazioni di settore e le opposizioni: «Non ci sarà nessun taglio del filo spinato, i centri in Albania sono analoghi a quelli realizzati sul territorio nazionale, sono di contenimento leggero, non sono Cpr anche se una parte è dedicata al trattenimento e all’espulsione».
Tocca qui il ministro un punto dolente, all’attenzione in queste settimane di Palazzo Chigi e del suo stesso ministero. Già perché l’operazione Albania nasce con un obiettivo dichiarato: dirottare nel Paese est-europeo i migranti che si riversano sulle coste italiane provenendo però da Paesi considerati “sicuri”. Né profughi né rifugiati bensì i cosiddetti “migranti economici”, i soli a cui si applicano le procedure di frontiera accelerate: ventotto giorni, poi l’espulsione o, se ne hanno diritto, la protezione internazionale.
Ebbene, un cavillo giuridico europeo e il crescente ostruzionismo dei tribunali italiani di fronte alle richieste di convalida del trattenimento di questi migranti stanno insinuando un dubbio ai piani alti del governo: e se i centri albanesi, dopo tanta fatica, rimanessero vuoti? Non è un dettaglio, nelle ore in cui monta la polemica dalle opposizioni per i finanziamenti dietro la costruzione delle strutture dall’altro lato dell’Adriatico: un centro per il trattenimento di richiedenti asilo (880 posti), un Cpr (144 posti) ed un penitenziario (20 posti).
Una parte consistente dei lavori — circa 60 milioni di euro secondo quanto riportato dal Domani — è stata realizzata con affidamenti diretti del ministero della Difesa ad aziende poco note o del tutto sconosciute. Insomma niente gare pubbliche per accelerare sui tempi. «Affidamenti diretti milionari e senza trasparenza — batte i pugni la segretaria del Pd Elly Schlein — un enorme spreco di soldi dei contribuenti italiani». Mentre Riccardo Magi, segretario di Più Europa, invoca l’intervento della Corte dei Conti «affinché faccia luce».
Meloni tiene molto al patto albanese. Al punto che era stata tentata dal premiare con la sede di Washington l’ambasciatore a Tirana Giuseppe Bucci, che invece andrà a Berlino. Mentre in Albania, così ha deciso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, arriverà dal Kazakistan Marco Alberti, diplomatico rodato ed ex manager di Enel. Le incognite, si diceva, non sono poche. Una grossa arriva da Bruxelles. Il 4 ottobre la Corte di Giustizia dell’Ue, interessata dal Tribunale di Brno in sede di rinvio pregiudiziale, ha messo in chiaro che uno Stato membro non può dichiarare un Paese di origine dei migranti “sicuro” basandosi solo su una singola regione o area del suo territorio. Tradotto: o un Paese è sicuro, o non lo è affatto. Ma c’è di più: il giudice nazionale, spiega la Corte Ue, deve rilevare se la procedura di frontiera decisa dal Viminale non violi le norme Ue in materia di Paesi sicuri.
Cavilli? Niente affatto. Perché se passasse la linea della Corte di Bruxelles una lunga lista di Stati definiti “sicuri” dal Viminale e dalla Farnesina e da cui proviene il grosso dei migranti destinati ai controlli albanesi finirebbe depennata. Camerun, Costa d’Avorio, Nigeria. Ma anche il Bangladesh o la Tunisia dirimpettaia dell’Italia e considerata “a rischio” dai giudici Ue perché il governo di Saied discrimina la minoranza Lgbtq. Come non bastasse, dagli appunti stilati a Palazzo Chigi traspare grande preoccupazione per il “trend” seguito dai giudici italiani chiamati a giudicare sulle procedure accelerate di frontiera.
IL MURO DELLE TOGHE
I dati della struttura di Porto Empedocle, operativa da metà agosto, non sono rassicuranti: su 239 procedure effettuate al 10 ottobre, ben 83 non sono state convalidate. E non gira meglio per la struttura di Modica, in provincia di Ragusa: su 53 procedure accelerate, quasi la metà, 25, sono state stoppate dai giudici. Al governo temono che facciano altrettanto i giudici del tribunale di Roma chiamati a dire sì o no sulle espulsioni nei centri albanesi. Da un lato la mannaia europea sui Paesi “sicuri”, dall’altro il muro delle toghe italiane: il rischio di una tenaglia sull’accordo con Rama si fa concreto. Per questo da mesi a Roma ci si interroga se cambiare quel patto e riscriverlo per aggirarla.
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