«Mi porterò dietro per sempre le immagini degli oggetti sparsi dentro l’imbarcazione. Frammenti della vita a bordo. Ma soprattutto il fatto che all’improvviso si è interrotta la loro quotidianità».
Vincenzo Nardelli è ispettore del Nucleo sommozzatori dei vigili del fuoco di Napoli, specialista abilitato in immersioni speleo subacquee di livello avanzato. Significa che può entrare nei luoghi più angusti, nei pertugi più stretti, con un sangue freddo straordinario. Per capire il tipo di lavoro che svolge con i suoi colleghi, basta riportare alla mente i frame di film o documentari sul recupero dei ragazzini thailandesi che rimasero intrappolati in una grotta e furono miracolosamente salvati da sub speleologici nel 2018.
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Come avete fatto a trasportare all’esterno i cadaveri?
«Abbiamo cercato di rispettare le loro condizioni, ma non posso rispondere nello specificico. Ma per noi è importantissimo preservare la dignità delle vittime. Ci deve essere rispetto».
Voi sott’acqua riuscite a entrare anche nei luoghi più angusti?
«Sì, abbiamo due livelli operativi della speleo subacquea. Quello ordinario e quello avanzato, che è il mio livello. Possiamo penetrare in cavità ipogee e ambienti assimilati come appunto l’imbarcazione. Il continuo addestramento ci garantisce sia la padronanza della tecnica e sia la capacità di autocontrollo, la gestione dello stress e della conduzione di una immersione in un ambiente confinato. Il rischio maggiore è che noi non possiamo riemergere sulla nostra verticale. C’è un percorso obbligato che va seguito sia all’andata sia al ritorno. Ci addestriamo con cadenza mensile in siti ipogei, come grotte marine o in ambienti montani. Io sono sommozzatore dal 2006. Ho svolto vari interventi di soccorso e recupero di persone nelle grotte, ma il 3 ottobre del 2013 ho fatto un intervento a Lampedusa che non dimentico, quello delle 367 vittime per l’imbarcazione affondata. Lì però erano tutti nella coperta del peschereccio».
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Quante immersioni ha eseguito a Porticello?
«Quattro con una permanenza sul fondo di circa 20 minuti. Nello specifico l’altro collega ispettore e io, abbiamo fatto una decompressione con una miscela iperossigenata e per questo siamo potuti restare più a lungo in immersione».
Cosa ricorda della Bayesian?
«È stato difficile dovere ragionare in un luogo che non era in asse con il nostro modo di vedere le cose perché era piegato di 90 gradi. Questo ha fatto sì che tutto venisse ricalibrato, ricalcolato dal mio cervello. Quella che era una porta era un passaggio, quello che era il pavimento era diventata una parete. Per questo abbiamo dovuto fare un’analisi attenta di ciò che andavamo a fare e dove. Avevamo una mappa fornitaci dalla polizia e dalla guardia costiera».
Quali sono i rischi?
«È molto importante non perdere l’orientamento quando sei dentro al relitto, al buio. E avere sempre chiaro dov’è l’uscita. Usiamo una sagola, una corda sottilissima di pochi millimetri che si fissa in determinati punti, una sorta di corridoio virtuale. È il cosiddetto filo di Arianna degli speleo subacquei».
Quanto erano stretti gli spazi dentro al Bayesian?
«Molto. E spesso non avevamo la visibilità necessaria, era buio. Il primo rischio è quello che le dicevo prima: sulla nostra verticale non potevamo riemergere. Il secondo è che c’era materiale che fluttuava dentro il sito: gli arredi, i materassi, gli oggetti di ogni tipo, era uno yacht con una vita a bordo che all’improvviso si è interrotta».
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