Quando arriva il suo turno Giorgia Meloni si rivolge direttamente a Donald Trump. L’elefante nella stanza (virtuale). «Non possiamo rischiare di far diventare il tema del futuro dell’Ucraina un tema solo europeo». Parla schietto la presidente del Consiglio durante la telefonata con i leader Ue, Zelensky e il presidente americano che fa da anticamera al summit di domani in Alaska. «La posta in gioco è più grande», il senso del discorso pronunciato in call dalla leader italiana, collegata dalla Grecia dove trascorre gli ultimi giorni lontano dai palazzi romani, «riguarda tutto l’Occidente».
È un ruolo non semplice quello che prova a giocare la timoniera di Palazzo Chigi. Da un lato serra i ranghi con il “gruppo di testa” europeo — Macron, Merz, Starmer — nei conciliaboli che precedono il vertice della verità in Alaska. Dall’altro prova a spronare Trump. A spiegare che l’affare ucraino non è e non potrà mai essere solo un problema europeo. Che è «essenziale avere a bordo gli Stati Uniti» come centrale, riecco l’appello a Trump, sarà «la sua leadership» per «trovare una soluzione». Ovvero «raggiungere una pace che assicuri la sovranità e la sicurezza dell’Ucraina» come fa mettere a verbale in serata in una nota ufficiale. Ringrazia Zelensky «per la serietà dimostrata finora nella ricerca di una soluzione diplomatica», poi si rivolge indirettamente a Putin. Vuole vedere «l’atteggiamento della Russia» fra le montagne innevate di Anchorage, prende atto che finora Mosca «non ha inteso fare alcun significativo passo in avanti».
Passa infine a elencare i “paletti” italiani — ed europei — per muoversi nella trattativa. «Pace giusta e duratura non può prescindere da un cessate il fuoco, dal continuo sostegno all’Ucraina, dal mantenimento della pressione collettiva sulla Russia, anche attraverso lo strumento delle sanzioni, e da solide e credibili garanzie di sicurezza ancorate al contesto euroatlantico». Dietro le quinte, durante le tre telefonate a cui prende parte — con Trump, gli alleati europei e infine con la coalizione dei “Volenterosi” — Meloni entra nel merito. Insiste sulle “garanzie” da dare a Kiev. Ripropone l’idea di uno “scudo” della Nato — l’ipotesi è estendere l’articolo 5 per la difesa collettiva a un Paese esterno all’Alleanza — per scongiurare nuove aggressioni russe. Sul punto non c’è ancora un accordo in Europa.
IL BILANCIO
Serve tempo. A tarda sera a Palazzo Chigi, nonostante tutto, tirano un sospiro di sollievo. Meloni dall’estero aggiorna a stretto giro i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini al telefono. E traccia con i suoi un bilancio tutto sommato positivo del round di chiamate pomeridiane. Nessuna illusione: dal vis-a-vis fra Trump e Putin ad Anchorage può uscire di tutto. Fra le righe, collegato con gli alleati, lo ha fatto capire lo stesso presidente americano. Mostrandosi dubbioso, ad esempio, sulla possibilità di intimare allo zar russo uno stop immediato ai bombardamenti russi su obiettivi civili. Ma il rischio che Europa e Stati Uniti si muovessero in ordine sparso, ragiona la premier, era concreto. E per il momento sembrerebbe scongiurato.
Se non altro è un segnale la call — fissata per sabato pomeriggio — con cui il capo della Casa Bianca ha promesso di aggiornare i partner d’Oltreoceano all’indomani del summit in Alaska. L’Occidente «sta dimostrando capacità di dialogo» di fronte «a una sfida fondamentale per la sicurezza e la difesa del diritto internazionale», è il bilancio che traccia Meloni ai tavoli internazionali, durante il vortice di telefonate. Certo l’impresa non è neanche a metà del guado e a Palazzo Chigi lo sanno bene. Come in ogni negoziato che si rispetti il diavolo è nei dettagli. Vale anche per le prossime mosse europee. Sulle sanzioni alla Russia, ad esempio, convivono diverse sensibilità a Bruxelles.
Di qui il fronte baltico e del Nord che spinge per la linea dura. Di là quei leader europei che chiedono invece di usare l’arma economica contro Mosca come «strumento di pressione» nelle trattative. Insomma un mezzo e non il fine. A questa schiera appartiene anche l’Italia che dietro le quinte ha chiesto di “calibrare” il nuovo pacchetto di sanzioni europee, che si abbatterà su alcuni dei colossi energetici russi e rischia dunque di avere contraccolpi sui campioni del settore italiani. Si vedrà.
Superato lo scoglio di Anchorage, l’Europa si metterà in moto per organizzare un secondo round e questa volta a tre: Zelensky, concordano tutti i leader Ue, dovrà essere presente. Ieri la premier italiana ha ribadito la disponibilità a organizzare il vertice a Roma, con il plauso di Zelensky. Non sarà facile però eleggere la capitale italiana come sede. Vuoi per l’ostacolo della Corte penale internazionale che impone l’Italia di catturare Putin all’aeroporto. Vuoi per l’ostilità russa, già resa nota nei giorni scorsi, a partecipare a un summit in un Paese che non ritiene affatto “neutrale”.
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