Non c’è più tempo: di fronte a un mondo che è già cambiato, e «non ci guarda con simpatia», l’Europa deve «cambiare», ora. O è condannata a rimanere «marginale» e «spettatrice» come si è dimostrata davanti alle crisi, dall’Ucraina, all’Iran, a Gaza. E ai dazi imposti «dal nostro alleato di antica data» a cui «abbiamo dovuto rassegnarci».
Mario Draghi torna a sfruttare la ribalta del Meeting di Rimini per strigliare l’inazione europea, bloccata nelle sue lungaggini e nei suoi «riti», mettendo in guardia però dal non cedere alla via breve della «sovranità nazionale», del «distruggere l’integrazione europea», che altro non farebbe che «esporre» ancora di più il Vecchio continente. «Il 2025 sarà ricordato come l’anno in cui è evaporata l’illusione dell’Europa» di contare, va giù duro fin dalle prime parole l’ex presidente del Consiglio, che torna alla kermesse di Comunione e Liberazione per la quarta volta. Dallo stesso palco aveva già cercato di dare la sua ricetta per il riscatto europeo, quella distinzione tra «debito cattivo e debito buono» che torna a citare per invitare i Paesi europei a costruire «forme di debito comune».
Le parole di Draghi. Le uniche, rimane convinto, in grado di sostenere «progetti europei di grande ampiezza che sforzi nazionali frammentati e insufficienti non riuscirebbero mai ad attuare». Vale per quell’aumento delle spese della difesa, a sua volta imposto da Donald Trump. La sua elezione, dice senza mezzi termini, è stata «una sveglia brutale» — senza contare che nemmeno la Cina considera l’Europa un «partner alla pari» — e ora il compito dei 27 è quello di ritrovare il modo di «andare d’accordo». Di evolversi, di superare l’idea che basti la dimensione economica per avere «potere geopolitico». Di fronte «a quello che succede», un mondo dove non c’è più «il rispetto delle regole» ma l’uso della «forza militare e della potenza economica per proteggere gli interessi nazionali», la prima cosa che «viene in mente — sottolinea con un certo trasporto Draghi — è che forse la prima cosa da fare è: stringiamoci tutti insieme».
Il Meeting di Rimini. Intervento applauditissimo il suo, e qualche applauso scatta anche poco prima, quando accompagnato dal presidente della Fondazione Meeting dell’Amicizia tra i popoli, Bernhard Scholz, visita una mostra sul lavoro. Non si concede all’assalto dei cronisti, perché poi il suo pensiero sui dazi lo declina sul palco. Il suo non è un europeismo di «visione», anzi, è «pragmatico, coi piedi per terra», dice citando una battuta dell’ex Cancelliere tedesco Helmut Schmidt («cerchi una visione? vai dall’oculista») e rivelando che nella sua tesi di laurea la moneta unica era definita addirittura «una sciocchezza». Ma il progetto europeo si è dimostrato la giusta risposta alle esigenze di allora e oggi, la via per uscire dall’irrilevanza, è quella di rafforzare «l’integrazione», rivedere, la sua «organizzazione politica» perché ora non è «attrezzata» a sufficienza per competere nelle sfide globali, rimuovere le barriere, «mettersi d’accordo su come finanziare i giganteschi investimenti necessari» e «disegnare una politica commerciale» adatta alla nuova era. In sintesi, «ritrovare unità di azione» ora, prima che «le circostanze» diventino «insostenibili».
Gli scetticismi. Per Draghi, inoltre, bisogna rispondere ai «nuovi picchi di scetticismo» nei confronti di Bruxelles, che ha regole non tanto sui valori, quanto «sulla capacità di difenderli». Oggi ci sono regole obsolete che rendono l’Unione «fragile e vulnerabile». Ma l’Europa ha già dimostrato — dai vaccini al Pnrr — di sapere reagire e oggi questo «scetticismo», è l’appello che lancia soprattutto ai giovani in platea, va «trasformato in azione: fate sentire la vostra voce».
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