C’è ancora da chiarire dove collocare a Taranto la nave rigassificatrice, necessaria con il suo metano a garantire più volumi nella produzione di acciaio. E, di riflesso, tutti i 20mila posti di lavoro, tra quelli diretti e indiretti. Ma ieri, dopo un vertice di 8 ore nella sede del ministero delle Imprese e del Made in Italy, gli enti locali pugliesi (la Regione, la Provincia e il Comune di Taranto, l’amministrazione di Statte) hanno accettato di mantenere nel centro jonico gli attuali tre altiforni, necessari per portare la produzione a sei milioni di tonnellate annue. Fino a qualche ora fa sembravano fermi su due impianti. Tanto basta per concludere la trattativa per salvare l’ex Ilva di Taranto. «Nessun partito – ha scandito il governatore Michele Emiliano — ha espresso l’intendimento di chiudere la fabbrica».
Per la cronaca, le parti si rivedranno tra una settimana, il 15 luglio. Ma per quei dati c’è la volontà di siglare un accordo di programma che si ridurrà da 12 a 8 gli anni della decarbonizzazione con il passaggio ai forni elettrici e che è necessario per chiedere la nuova Aia. Senza la quale il Tribunale di Milano dovrà eseguire una sentenza della Corte europea, che invece impone la chiusura per motivi ambientali di quella che un tempo era la più grande acciaieria in Europa. Tutti passaggi che però spingeranno i commissari dell’ex Ilva a dover lanciare una nuova gara, visto che nel precedente non era previsto un obbligo così stringente sulla decarbonizzazione. Al riguardo gli stessi commissari avrebbero riannodato i fili della trattativa con gli indiani di Jindal e con il fondo americano Bedrock, che avevano già partecipato alla vecchia manifestazione d’interesse e solo le uniche a voler comprare tutti i siti ex Ilva insieme a Baku Steel. Gli azeri, però vincolano la loro presenza alla piena operatività della nave rigassificatrice.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha parlato di «una giornata importante, decisiva, storica per Taranto, per la siderurgia italiana, per la politica industriale nel nostro Paese». Detto questo le parti devono ancora sciogliere dei nodi importanti, il primo del quale è la presenza della nave rigassificatrice, forse l’unica che può garantire metano sufficienti per alimentare i tre forni e gli altri tre che devono lavorare il cosiddetto preridotto ferroso, senza il quale i futuri forni elettrici non possono produrre l’acciaio flessibile chiesto dall’automotive e dalla difesa. Nelle intenzioni dei commissari e del governo la nave deve stazionare nel porto, gli enti locali prima hanno chiesto di ormeggiarla a 12 chilometri dalla costa (ipotesi poco fattibile per l’azienda visti i costi), poi ieri hanno proposto una nuova collocazione: a tre chilometri , nell’area della vecchia Darsena.
GLI SCENARI
Q uesto punto è dirimente e non a caso ieri Urso che a questo sono collegati i due scenari sul futuro dell’Ilva: «La prima opzione prevede di realizzare a Taranto tre forni elettrici con tre Dri (Ferro ridotto diretto, ovvero gli impianti per realizzare il preridotto)». Il tutto però con un rigassificatore. «La seconda — ha aggiunto — è che a Taranto si realizzino tre forni elettrici alimentati anche con un contratto di servizio da parte della società Dri Italia, che realizzerà però il preridotto in un’altra località del Sud di Italia dove sarà più facile il rifornimento, a miglior costo e convenienza, del gas necessario». In quel caso lì il polo del Dri potrebbe essere spostato a Gioia Tauro. Qui gli enti locali hanno dato la loro disponibilità alla nave rigassificatrice.
In entrambi gli scenari la produzione di acciaio a Taranto resterebbe di 6 milioni di tonnellate. Ma nel secondo sono a rischio circa 1.500 posti che si possono mantenere soltanto grazie alle attività di preridotto. Urso, poi, non ha escluso che i futuri acquirenti potrebbero anche installare un forno elettrico nello stabilimento di Genova. Come detto diminuiscono i tempi per la decarbonizzazione, mentre il governo è sicuro di riportare la produzione a sei milioni di tonnellate (oggi siamo a due) con i vecchi altiforni nel 2026, con la manutenzione degli Afo2 e Afo4 e sistemando l’Afo1, vittima di un incendio nelle scorse settimane, «quando sarà dissequestrato».
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