Dopo la schiarita sulle auto, quella sui farmaci: anche a fronte dei nuovi affondi tariffari di Donald Trump, agli europei si applica l’aliquota unica del 15% pattuita a fine luglio in Scozia. E intanto, per convincere gli Usa ad abbassare i dazi sull’acciaio, l’Ue mette la Cina nel mirino. Il presidente-tycoon è tornato all’attacco annunciando balzelli del 100% sui medicinali di marca o brevettati a partire dal 1° ottobre, tranne che per quelle aziende che hanno in cantiere l’apertura di un impianto negli Stati Uniti. Ma a Bruxelles si considerano salvi: questa nuova scure doganale «per noi non vale». Secondo la Commissione, infatti, «il tetto del 15% inserito nell’accordo quadro con gli Usa per farmaci, legname e semiconduttori rappresenta una polizza assicurativa. E garantisce che non ci saranno applicati dazi più elevati».
LE INTESE
L’ultima parola spetta alla sempre imprevedibile Washington, ma il commissario al Commercio Maros Sefcovic ha ostentato fiducia, ricordando che «c’è un chiaro impegno degli Usa, e che finora sia noi sia loro stiamo rispettando quanto concordato». Trump ha indicato che porterà i dazi sui mobili da cucina e da bagno al 50%, ma, secondo quanto si apprende a Bruxelles, anche queste sovrattasse sarebbero risparmiate agli europei, stavolta in virtù delle esenzioni sul legname.
IL CLIMA
Discorso diverso per il 25% sui camion, ultimo tassello del nuovo annuncio: in questo caso non dovrebbe esserci sconti. Ma non basterà a incrinare un clima che viene descritto come costruttivo, dopo il respiro di sollievo rappresentato, giovedì, dalla pubblicazione nel Federal Register americano del provvedimento che riduce i dazi su auto e componentistica fabbricate in Europa dal 27,5% al 15% con effetto retroattivo dal 1° agosto, e li azzera dal 1° settembre per aeromobili civili e pezzi di ricambio, farmaci generici e risorse naturali (come sughero e diamanti lavorati).
«Siamo al lavoro per esplorare ulteriori esenzioni e una cooperazione più ampia», confermano dall’esecutivo Ue. E di questo hanno parlato brevemente, incontrandosi in Malesia a margine di una riunione dell’Asean, Sefcovic e il suo omologo americano Jamieson Greer. Tra i dossier sul tavolo, immancabilmente, c’è il taglio dei dazi (oggi anch’essi al 15%) su vino e alcolici, sensibilissimo per Paesi come Italia (che ha visto il suo export negli States calare del 26% già a luglio), Francia e Irlanda.
Ma Sefcovic non ha dubbi sulla priorità da prendere di petto: «Dobbiamo dare nuovo slancio alla nostra collaborazione strategica sull’acciaio». Insieme all’alluminio, anche l’acciaio è rimasto fuori dall’accordo sui dazi di fine luglio, e continua a essere soggetto a un maxi-balzello del 50%. Tra oggi e domani, Sefcovic manderà una lettera a Washington per avviare i contatti tecnici. «Da tempo stiamo discutendo la creazione di una sorta di unione siderurgica tra Ue e Usa. Non esportiamo molto acciaio nei rispettivi mercati, ma entrambi facciamo i conti con gli enormi afflussi globali» del metallo, ha spiegato Sefcovic.
LA QUOTA
La strategia di Bruxelles è semplice: basta farsi la guerra (commerciale) a vicenda, l’avversario comune da battere insieme è semmai la Cina, che produce troppo e a prezzi troppo bassi. Da Pechino arriva oltre metà dell’acciaio mondiale, mentre l’Ue ha visto la sua quota globale passare, nell’ultimo decennio, dal 9,4% al 6,9%, e teme che i volumi asiatici non più diretti negli Usa possano adesso riversarsi in Europa. Sarà la Commissione a fare il primo passo, proponendo entro metà ottobre quelle che nel linguaggio della burocrazia si chiamano “salvaguardie sull’acciaio”, ma che concretamente potrebbero tradursi in dazi tra il 25% e il 50% sul metallo “made in China” e i derivati, come anticipato da Handelsblatt; oltre che in sistemi di tracciabilità stringenti per impedire agli esportatori di mascherare la reale origine del prodotto.
I VOLUMI
Con queste credenziali in mano, Sefcovic tornerà a bussare alla Casa Bianca chiedendo di ridurre nettamente i dazi sui volumi storici di acciaio scambiato tra le due sponde dell’Atlantico. È il segnale della disponibilità a mettere in piedi un fronte comune occidentale anti-Cina, proprio mentre Pechino torna in pressing sugli Usa chiedendo di cancellare le tariffe «irragionevoli» in cambio della ripresa degli acquisti di soia. Lo stop da fine maggio sta mettendo alle strette le aziende agricole del Midwest, che vedevano nei cinesi i principali acquirenti.
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