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Stabilimenti balneari, giro d’affari da 32 miliardi, ma concessioni low-cost. L’allarme: «Senza rimborsi chiudiamo»


Quasi 30mila concessioni demaniali per 7mila imprese balneari, con 300mila lavoratori e un fatturato da quasi 32 miliardi. Occupano 19 milioni di metri cubi di spiaggia. Le concessioni si trasmettono nelle aziende, di genitore in figlio, da oltre 30 anni. Prima scadevano ogni 6 anni, ma con rinnovi che spesso venivano garantiti. E ogni anno lo Stato incassa solo di canone sugli arenili circa 115 milioni (anche se la maggior parte dei balneari paga meno di 2.500 euro l’anno e 235 milioni tra il 2007 e il 2020 non sono stati ancora versati all’Erario). Il conto degli incassi statali diventa più che doppio considerando tutte le imposte. Sono i numeri nazionali di un comparto che verrebbe interamente coinvolto dall’applicazione della direttiva europea Bolkenstein del 2006, avviando le gare aperte a tutti gli operatori europei dal 1° gennaio 2025.

L’ESBORSO

Che le gare partiranno effettivamente, visto il pressing Ue e una procedura di infrazione in stand-by dopo quasi 20 anni di proroghe bocciate dalla magistratura italiana e continentale, nuovi mini-rinvii a parte, sembra quasi inevitabile. Ma bisogna correre contro il tempo. Per preparare le procedure, infatti, i Comuni devono avere regole chiare entro ottobre. E le associazioni balneari attendono dal governo chiarimenti tecnici che possano limitare il numero di concessioni coinvolte. La questione più spinosa è quella degli indennizzi dai concessionari subentranti ai vecchi, previsti dalla legge Draghi sulla concorrenza del 2021. In teoria la direttiva Ue vieta ogni vantaggio agli operatori uscenti e i rimborsi a carico delle aziende potrebbero essere percepiti come un favore improprio. Potrebbe intervenire lo Stato, ma secondo gli esperti si rischia di dover mettere in campo anche oltre 10 miliardi. Soldi che al momento non ci sono. Senza rimborsi le imprese balneari si dicono costrette a chiudere. Per la Corte di Giustizia Ue, poi, alcune opere, come spogliatoi, piscine e bar, potrebbero essere acquisite dallo Stato senza rimborsi.

Come confermato da un’altra sentenza, quella del Consiglio di Stato italiano dello scorso aprile, la Bolkenstein presuppone la «scarsità delle risorse naturali»: non vale se le spiagge libere sono preponderanti.

LA RISORSA SCARSA

Lo scorso settembre il governo Meloni aveva redatto un monitoraggio da cui emergeva che le coste italiane sarebbero lunghe oltre 11mila chilometri, ben 2.200 chilometri in più di quanto calcolato dall’Istat. Non è un dettaglio da poco, perché sfruttando il principio delle «risorse scarse» si era concluso che l’attuale occupazione degli stabilimenti balneari è limitata al 33% delle aree disponibili. Essendo quindi il 67% delle spiagge libere, la direttiva non si sarebbe dovuta applicare.

Il report, però, è stato respinto dalla Commissione Ue. Secondo Palazzo Berlaymont quel 33% è calcolato rispetto al totale delle coste (escludendo solo le aree militari e secretate), classificando come superfici «disponibili» anche: aree non accessibili, aree per l’atterraggio di aerei, porti, aree industriali con impianti petroliferi, industriali e di produzione di energia, aree marine protette e parchi nazionali. Secondo Legambiente solo circa il 50% delle spiagge è libero e, complice l’erosione, sempre meno accessibile e scomodo. In Liguria, Emilia-Romagna e Campania oltre il 70% della costa sarebbe occupato da stabilimenti balneari.

E all’estero come funziona? Come in Italia anche in Portogallo vige un diritto di preferenza per i titolari “storici” delle concessioni. In Francia, Croazia e Grecia si rispettano invece i principi concorrenziali europei. In Spagna le spiagge sono da sempre “libere”, tranne le parti finali, ma le concessioni per le attività commerciali possono arrivare fino a 75 anni.

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