Roberto Vavassori preferisce non fare nomi, ma ipotizza che «da qui a qualche mese avremo la firma dei primi accordi per avviare gli investimenti di costruttori automobilistici cinesi in Italia. E che entro un anno potrebbero vedere la luce i primi insediamenti». Il presidente di Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica) ha fatto parte della delegazione di imprenditori nella missione in Cina, guidata da Giorgia Meloni. E dopo il memorandum firmato dal premier italiano con il governo di Pechino per una collaborazione industriale in settori strategici come l’automotive, Vavassori prevede che «i cinesi in Italia non verranno per assemblare la versione aggiornata delle nostre piccole utilitarie».
Fino a qualche tempo fa si credeva che un costruttore cinese di auto potesse venire in Italia soltanto per assemblare carrozzerie prodotte altrove.
«Dopo la missione a Pechino credo che la maggior parte di questi timori sia svanita. Intanto, dobbiamo ricordarci che l’80 per cento del valore di un veicolo è dato dai suoi componenti, che le case comprano dai fornitori. Eppoi è necessario fare una premessa più generale».
Prego.
«Non abbiamo più di fronte la Cina di quindici anni fa, che era interessata soltanto ad aumentare i livelli di produzione. Sono avvenuti in questo lasso di tempo grandissimi cambiamenti: oggi questo Paese è diventato più consapevole del suo potenziale economico e in tanti settori è diventato il principale attore anche per gli altissimi livelli tecnologici raggiunti. Quindi la competizione è con un mercato ancora più complesso e sfidante».
Fatta la premessa…
«Come al nostro Paese non interessa un assemblatore di carrozzerie e tecnologie straniere in Italia, allo stesso modo i cinesi non vogliono svolgere questo ruolo. Nell’automotive sono diventati molto competitivi anche nei segmenti premium e sfidano apertamente i colossi europei e americani. E per farlo hanno bisogno anche delle tecnologie italiane».
Non guardano all’Italia soltanto per le piccole e per i modelli low cost?
«All’industria cinese interessa entrare nei nostri mercati, quindi rispondere alla domanda degli automobilisti italiani ed europei, che è diversa da quella asiatica. E che non è incentrata soltanto sui segmenti minori. Sono molto avanti in tutto quello che è trasporto su gomma: auto, moto, veicoli commerciali, veicoli speciali fino ai people mover. Per questo non potranno essere semplici assemblatori, ma lavoreranno in questi comparti. Eppoi guardano alla transizione, che vuol dire anche motori alimentati da biodiesel o da diesel sintetici».
Tra l’Italia e la Cina ci sono forti differenze sul fronte produttivo. Non rischia di restare schiacciata la nostra componentistica?
«Non credo, perché qualunque costruttore automobilistico utilizza tra il 50 e l’80 per cento di componentistica prodotta a livello locale. Percentuale che non scenderà neppure in questa fase dove l’Europa, non soltanto l’Italia, non è ancora concorrenziale sulla produzione di batterie».
La nostra componentistica però è ancora troppo legata ai motori endotermici. Non c’è il rischio che, con l’arrivo delle industrie cinese più interessate all’elettrico, si perdano competenze, cioè tecnologie importanti?
«Anche su questo versante sfatiamo false informazioni. Seppure fosse vero — e non lo è — che i nostri produttori siano indietro sulle tecnologie per le vetture Bev, un’auto è comunque composta da sterzo, freno o interni. Ma al di là di questa considerazione, abbiamo importanti eccellenze sul versante dell’elettrico: da noi si realizzano le macchine per l’avvolgimento dei motori elettrici, i lamierini con i quali si costruiscono i rotori e gli statori di questi propulsori, per non parlare di Stm che è all’avanguardia nei microprocessori per abbattere l’alto voltaggio. Le presse che usa Elon Musk arrivano da Brescia».
Scusi l’insistenza, ma come difendiamo queste tecnologie?
«Queste tecnologie, visto il loro alto valore, le produciamo noi. E resteranno da noi. Senza dimenticare che l’Europa impone ai costruttori determinati standard per le vetture che circolano nel Vecchio Continente. Casomai queste tecnologie devono essere utili per spingere a produrre in Italia — e non in Spagna o in Ungheria — le case cinesi. Le quali, poi, sono ben consce che rispetto al passato devono realizzare una parte delle loro vetture all’estero se vogliono conquistare nuovi mercati. Soprattutto adesso, in una fase che non è più all’insegna della globalizzazione ma della regionalizzazione».
Quali sono i contorni di questo business per l’Italia?
«Dico soltanto che Pechino investe sull’auto a livello domestico 5,6 miliardi di euro e in Europa ha impegnato mezzo miliardo. Ci sono altissimi spazi di crescita».
Che cosa ne dirà Stellantis?
«In Italia abbiamo un gap tra produzione (500mila vetture, ndr) e consumo di auto che supera il milione di mezzi. C’è spazio per tutti, va da sé che ha finora investito di più, è il favorito in questa sfida».
Che cosa pensano gli imprenditori cinesi di noi.
«In generale hanno tutti un grandissimo rispetto per le competenze che trovano in Italia. Alcuni sono già presenti da noi con centri di design e con antenne tecnologiche tra Milano e Torino. Sono punte avanzate, che impegnano 500 persone. Poi ci sono aziende cinesi che acquisendo aziende o parti di esse, impegnate nella cosiddetta ultimazione, cioè che realizzano macchinari per la produzione, conoscono e apprezzano i livelli della nostra manifattura».
Qual è il suo bilancio della missione in Cina?
«Positivo. Il sistema Italia – dai ministeri alle ambasciate passando per l’Ice e le camere di commercio — ha dimostrato un fortissimo coordinamento tra i suoi vari livelli. Eppoi penso a come è stato apprezzato dalla controparte cinese l’intervento della premier Giorgia Meloni: ha fatto aperture importanti dal punto di vista politico, ma ha anche richiamato tutti sulla necessità di partire ad armi pari in questa collaborazione».
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