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slitta ancora il voto sul Cda. E in Liguria la Lega si smarca


La Rai in freezer. Le regionali anche. A giudicare da quel che non è stato deciso, il vertice del centrodestra a Palazzo Chigi non è stato tutto rose e fiori. Usciti dalla riunione fiume, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi giurano unità e compattezza in un comunicato finale. Ma sono tante le questioni che restano appese nella stanza al primo piano che ospita il conclave dei leader.

Che ne sarà della Rai? Si era ripromessa di prendere il toro per le corna, la premier, dopo settimane ad alta tensione sulla tv pubblica. La cui governance è scaduta da maggio scorso: non un dettaglio per la più grande azienda culturale del Paese. Peccato che l’intesa sul nuovo corso a viale Mazzini non ci sia. Ed è forse un eufemismo, visto il clima. Nel vertice di maggioranza i leader trovano il tempo per parlare delle nomine in arrivo. Meloni è infastidita dal pressing leghista e la richiesta di un direttore generale da affiancare al “suo” Giampaolo Rossi, Ad in pectore. Altrimenti, è il Salvini-pensiero, al Carroccio deve andare una direzione di peso. Il Daytime, la mecca televisiva dei casalinghi e le casalinghe italiane. O meglio ancora gli Approfondimenti in mano a un altro dirigente carissimo alla “fiamma”, Paolo Corsini. Di regalare i talk show ai leghisti però la premier non vuole saperne.

La raccontano irritata dal can-can sulla tv pubblica. Ricorda di continuo i tempi del governo Draghi, quando a FdI, unico partito dell’opposizione, fu negato un posto in Cda, che pure spettava di diritto. Nessuno alzò un dito. I diktat poi non aiutano. Verrebbe quasi la tentazione, alla premier, di sparigliare le carte: frenate su Rossi Ad? Allora nominiamo solo manager e imprenditori e tanti saluti alla lottizzazione Rai. Fatto sta che lo stallo continua: se ne riparla più avanti. Ufficialmente, questa è la versione che dà Salvini in serata, perché manca l’intesa con le opposizioni.

Cioè i voti in Cda per eleggere un presidente di garanzia: lato centrodestra, il nome in pole è ancora Simona Agnes, dirigente apprezzata. La tifa Forza Italia, si spende per lei Gianni Letta. I conti però non quadrano: bisogna convincere i Cinque Stelle a votare in segreto la candidata della coalizione, strappare con il Pd che invece minaccia l’Aventino in vigilanza. Un’impresa. Sicché tutto slitta, di nuovo. Forse anche il voto per eleggere i nuovi consiglieri del Cda in Parlamento, inizialmente fissato per il 12 settembre. Nodi irrisolti, si diceva. Come le regionali di autunno, che da tempo trattengono il fiato al governo.

LE REGIONALI

Per l’election day di Umbria, Liguria ed Emilia-Romagna ci sono poche speranze, anche se ancora ieri il Cdm «raccomandava» alle regioni di accorpare il voto. Per la Liguria scossa dagli scandali giudiziari il giorno del giudizio è fissato e irremovibile: 27-28 ottobre. E qui si arriva al nodo, intricatissimo: chi schiererà il centrodestra per il dopo-Toti? Sembrava chiusa per Ilaria Cavo, sponda Noi Moderati, braccio destro dell’ex governatore finito agli arresti. Sembrava, appunto. Invece è ancora tutto aperto.

Ieri al tavolo la Lega ha proposto un nome civico, ma di area: il vicesindaco di Genova Pietro Piciocchi. In settimana il governo commissionerà sondaggi privati per capire chi funziona di più. Sembra sfumare l’opzione Rixi, il viceministro alle infrastrutture e vedetta del partito in regione. La sensazione è che il Carroccio voglia smarcarsi. Mettere in conto alla Lega il candidato alle regionali liguri significa regalare un credito a Fratelli d’Italia. Quel credito si chiama Veneto: Meloni rivendica da tempo la roccaforte leghista, per anni regno incontrastato di Luca Zaia.

Nel 2025, scaduto il terzo mandato consecutivo del “Doge”, toccherà a FdI. Salvini però non intende cedere senza combattere. Lo deve ai militanti e al popolo leghista che radunerà a Pontida ai primi di ottobre. Lo stesso popolo in pressing su una storica battaglia di via Bellerio: l’autonomia. Il “Capitano” vorrebbe un primo via libera, prima di calcare il “sacro prato” nel bergamasco. La firma degli accordi sulle materie “non-Lep” dei governatori leghisti Zaia, Fontana e Fedriga. Uno scatto in avanti che però convince poco Meloni e Tajani. Anche di questo, «ne riparliamo».

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