Una doppia frenata. Il governo vuole mantenere la promessa del Ponte sullo Stretto. Ma intende aspettare le motivazioni della Corte dei Conti prima di studiare le prossime mosse. E allo stesso tempo allentare le tensioni politiche intorno al referendum sulla riforma della giustizia: «Non sarà un voto sul governo». Metà mattina, Palazzo Chigi. «Un mese in più non cambia». È Matteo Salvini, il ministro che più di tutti ha messo la faccia sulla maxi-infrastruttura stoppata dai giudici contabili, a tirare il freno. Apre le danze del vertice convocato ad hoc insieme a Giorgia Meloni, Antonio Tajani (collegato dal Niger) e le prime file dell’esecutivo: Alfredo Mantovano, Giovanbattista Fazzolari, il segretario generale Carlo Deodato, con loro l’Ad della società Stretto di Messina Pietro Ciucci.
LA FRENATA
«Voi sapete che solitamente sono uno fumantino…» scherza in apertura il ministro delle Infrastrutture e leader della Lega. Salvo consigliare prudenza. Il Ponte si farà, dichiara agli alleati e ripete ai cronisti assiepati a Piazza Colonna: «Meloni e Tajani mi hanno dato il mandato di andare avanti». E se il sospetto di un assedio giudiziario contro il governo resta solidissimo, nel giorno del via libera alla separazione delle carriere al Senato, «non voglio pensare a una vendetta..», nella riunione riservata Salvini smorza i toni. «Aspettiamo le motivazioni e capiamo quali sono le contestazioni».
È la linea bollinata da Meloni in serata, in un’intervista al Tg1: «La Corte? Aspettiamo i rilievi ma l’obiettivo è realizzare l’opera» mette a verbale. Insomma calma e gesso. Si dice «francamente incuriosita» di fronte ai rilievi delle toghe, «come quello nel quale ci si chiedeva per quale ragione avessimo condiviso una parte della documentazione via link, perché si avrebbe voglia di rispondere: ‘perché c’è internet’». E annuncia che, una volta arrivate le motivazioni, il governo tirerà dritto: «Il Ponte è un’opera strategica, sarà un’opera ingegneristica unica al mondo». Dietro le quinte però, nel conclave a Palazzo Chigi, la premier sposa la linea della cautela. Dettata da due convinzioni che si fanno strada ai piani alti dell’esecutivo. La prima: la Corte, nella deliberazione sul Ponte, si è divisa. Ci sono giudici che hanno votato contro lo stop e il mandato per i prossimi giorni — informalmente affidato al “mediatore” Mantovano — è di scoprire quanti e quali sono. La seconda: forzare la mano sul Ponte comporta seri rischi politici. E forse non solo politici. Era il piano iniziale: riportare il progetto del Ponte in Cdm, dichiararlo opera di “superiore interesse nazionale”, votare di nuovo e forzare la Corte ad approvarlo con riserva, per poi spiegare le ragioni del braccio di ferro in Parlamento. Una strategia rischiosa, hanno spiegato ieri i consiglieri della premier e dello stesso Salvini, aggiornato sul dossier durante un pre-vertice mattutino al suo ministero. Le preoccupazioni del governo sono contenute nel carteggio riservato e finito al centro dell’udienza della Corte due giorni fa (fra le carte rientra una lettera puntuta della Commissione europea di metà ottobre).
A Palazzo Chigi temono una selva di ricorsi, qualora si decidesse di procedere senza la bollinatura della Corte. Con il pericolo concreto di esporre tutto l’esecutivo alla responsabilità per danni erariali. Di qui la linea attendista, per il momento. Confermata dall’Ad della società Stretto di Messina Ciucci, parlando con i cronisti a margine della riunione. Il manager prende atto del cambio dei toni del governo: «Come spesso accade, la prima reazione, a caldo, è di sorpresa..» spiega lui. «Oggi abbiamo analizzato le cose sotto un profilo tecnico e deciso di attendere le motivazioni, ma l’input politico è di andare avanti. Ieri si è aperto un varco, dobbiamo chiuderlo e siamo fiduciosi di riuscirci».
È una partita che si intreccia con la riforma della giustizia e le tensioni che montano con le toghe, nel giorno del via libera in Parlamento. La premier si sfoga a Palazzo Chigi. Denuncia una magistratura che, ne è convinta, vuole bloccare il Paese, con l’effetto di danneggiarne l’immagine internazionale. Ma è anche consapevole dei rischi politici della campagna giudiziaria e del referendum sulla giustizia. Sicché al termine del vertice dà la linea agli alleati.
IL REFERENDUM
Sarà il centrodestra a chiedere per primo il referendum, con una raccolta firme tra i parlamentari da depositare in Cassazione. L’imperativo però è di non politicizzare la battaglia referendaria in primavera, evitare a tutti i costi di farne un plebiscito sulla legislatura, servendo un assist alle opposizioni che intanto montano le barricate: «Abbiamo sempre detto che il Ponte è un’opera inutile, vecchia e dannosa — denuncia la segretaria del Pd Elly Schlein — Chiediamo al governo di agire responsabilmente e di fermarsi». Sulla prudenza del governo alle prese con la riforma della giustizia pesa ancora una volta lo spettro del referendum di Renzi, personalizzato e trasformato in un voto sull’esecutivo. Un pericolo che Meloni non vuole correre. Intanto sulle nuove tensioni con i magistrati si sono accesi i fari del Quirinale. Dal governo negano interlocuzioni dirette sulla vicenda della Corte dei Conti. A Sergio Mattarella però, spiega chi conosce il presidente, «difficilmente può far piacere un livello di scontro così alto fra poteri dello Stato».
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