25.05.2025
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Politics

«Senza questi ragazzi le aziende non troveranno dipendenti specializzati»


Per Michele Tiraboschi «lo Ius scholae è una misura di buon senso. In aula, da docente di un’università (quella di Modena e Reggio Emilia, ndr) frequentata da gente di tutto il mondo, li vedo questi ragazzi: parlano l’italiano e spesso anche il dialetto, vogliono migliorarsi, lavorano ed escono con gli altri studenti. Soprattutto molti sono nati qui e sono perfettamente integrati». Il giuslavorista, allievo di Marco Biagi e tra i maggiori esperti di politiche attive in Europa, però, ci tiene a sottolineare un altro aspetto: «Andiamo verso un Paese sempre più vecchio, dove cresceranno sia i fabbisogni pensionistici sia la richiesta di sanità. Potrà sembrare cinico, ma in questa direzione i “nuovi italiani”, che spesso sono immigrati di seconda se non di terza generazione, contribuiranno non poco alla tenuta dei nostri conti e dei livelli occupazionali. Dove noi rischiamo moltissimo».

Si stimano almeno 500mila potenziali ragazzi che potrebbero ottenere la cittadinanza con lo Ius scholae.

«È un numero credibile, che sarà destinato a crescere negli anni. In primo luogo va ricordato che la scuola — dove si crea l’Italia del futuro — è uno strumento di fortissima integrazione: i bambini come i ragazzini più grandi non distinguono il colore della pelle, vivono in un mondo senza barriere. Dico di più».

Prego.

«L’inclusione verso gli studenti finisce anche per aiutare i loro genitori, che partecipando alle feste o ad alcune attività didattiche possono più facilmente “uscire” dalle loro comunità e integrarsi a loro volta».

Tornando alle pensioni, il presidente dell’Inps, Gabriele Fava, ha detto che nel 2030 gli over65 saranno il 35 per cento della popolazione.

«I conti dell’Inps oggi registrano un attivo di bilancio, tra 10 anni si sarà in passivo. Per invertire la china abbiamo bisogno di gente che versa i contributi. Quindi di una maggiore partecipazione al lavoro: che vuol dire ridurre la disoccupazione giovanile o quella delle donne oppure integrare nel nostro sistema produttivo meglio gli immigrati».

E i potenziali 500mila nuovi italiani?

«Questi ragazzi sono destinati a trovare lavoro. Posseggono una forte spinta che spesso i loro connazionali italiani non hanno. Rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, vogliono accedere a una maggiore istruzione e siccome vengono da famiglie molto concrete, si iscrivono a corsi professionali. Corsi che purtroppo nel nostro Paese non hanno ancora gli iscritti che meriterebbero».

Qual è il risultato sul piano occupazione in un sistema come il nostro, dove le aziende lamentano di non riuscire a trovare almeno un milione di figure professionali?

«Il mercato del lavoro non può essere misurato con razionalità matematica. È complicato fare previsioni. Ma questi ragazzi finiscono, seguendo questo percorso, per alimentare il fortissimo bisogno di specialisti da parte delle imprese. E troveranno un posto. In questo modo calerà il mismatch, la differenza tra l’offerta e la domanda in un mercato del lavoro, che non è sempre allineato. E dove, va ricordato, ci sono ancora due milioni di disoccupati. Questo è un pezzo importante sia per la crescita del Paese sia in ottica di tenuta dei conti pubblici. Al riguardo parliamo soltanto delle pensioni, ma c’è anche da salvaguardare la stabilità del nostro sistema sanitario».

A che cosa si riferisce?

«Abbiamo dei servizi su questo fronte che, per la qualità e la capillarità, altri Paesi se li sognano. Se vogliamo mantenere questa coesione sociale abbiamo soltanto una strada: continuare a crescere in termini economici».

E torniamo ai temi dell’occupazione e dell’inclusione.

«Si, perché altrimenti saremo costretti a tagliare qualcosa».

Senza dimenticare i problemi di denatalità.

«Più in generale il nostro Paese ha bisogno di linfa vitale: i figli, indipendentemente se di famiglie italiane da molte generazioni o di quelle degli immigrati, si fanno se c’è una prospettiva di futuro. Se c’è voglia di vita. E questa linfa vitale la devono dare i più giovani. Invece, negli ultimi anni, l’occupazione che è cresciuta di più è quella degli over 50».

Professore, ma la scuola italiana che lei definisce un grande strumento di integrazione, è in grado di portare avanti questo processo.

«Diciamo che dalla scuola come dall’università ci dobbiamo aspettare di più. Il sistema Italia deve capire che per migliorare i percorsi formativi o quelli professionali occorre fare un grande salto in avanti sugli investimenti».

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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