«Ciao, sono tornata». Non è solo tornata in Italia, nella sua città, a casa. Cecilia Sala è tornata alla libertà, alla vita. Nel tono con cui pronuncia quelle tre parole in un messaggio vocale indirizzato ai suoi colleghi di Chora News c’è questo: la fine di un incubo, la gioia di essere tornata a vedere la luce del sole, dopo tre settimane trascorse in una cella di isolamento del carcere di Evin, in Iran, con una luce elettrica sempre accesa puntata negli occhi. Una volta atterrata a Roma, la giornalista ha raccontato per tre ore ai carabinieri del Ros le condizioni in cui è stata detenuta: «Sono stata costretta a dormire per terra, continuamente spiata». La conferma di quelle poche parole pronunciate al telefono con i genitori: «La paura, tanta, fino a quando non ho messo piede sull’aereo per Roma».
IL LIBRO
I suoi carcerieri, il giorno prima che venisse liberata, le avevano concesso un libro dello scrittore giapponese Haruki Murakami, intitolato “Kafka sulla spiaggia”. «Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo – recita un passaggio del libro – Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato».
Un passaggio che sembra quasi autobiografico. Incarna il timore più grande della madre di Cecilia, che la sua detenzione possa lasciarle ferite psicologiche difficilmente rimarginabili: «Le condizioni carcerarie per una ragazza di 29 anni, che non ha compiuto nulla, devono essere quelle che non la possano segnare per tutta la vita». Da martedì – anche questo riferito ai militari – le sue condizioni erano notevolmente migliorate: era stata spostata in una cella più grande insieme a un’altra detenuta, che non parlava inglese ma con cui Sala si capiva a gesti. Nell’ultima telefonata con il suo compagno e collega Daniele Raineri, poco prima che fosse liberata, Cecilia aveva avuto un’idea: «Compralo anche tu questo libro, così lo leggiamo insieme, a distanza». Un modo per sentirsi vicini, anche se lontani oltre quattromila chilometri.
Sarà un caso ma nell’opera di Murakami i due protagonisti – pur non conoscendosi ed essendo diametralmente opposti tra loro – sono legati, senza saperlo, allo stesso destino. Un po’come Cecilia Sala e Mohammad Abedini Najafabadi, l’ingegnere iraniano fermato all’aeroporto milanese di Malpensa lo scorso 16 dicembre (tre giorni prima della reporter italiana), sulla base di un mandato d’arresto spiccato dagli Stati Uniti, e ancora detenuto nel carcere di Opera. Uno dei due protagonisti del libro di Murakami portato alla Sala dai suoi carcerieri ha come pseudonimo Kafka. Sarà anche questo un caso, ma è inevitabile pensare a “Il processo” di Franz Kafka, il romanzo in cui viene raccontata la storia di Josef K. , un uomo arrestato e perseguito dall’autorità senza che venga mai a sapere la natura del suo crimine. Esattamente quello che è successo a Cecilia, arrestata dalle autorità iraniane il 19 dicembre senza sapere il motivo, senza un capo d’accusa (se non la generica contestazione di aver «violato la legge islamica») e reclusa in una cella per 20 giorni da innocente. Non aveva ricevuto il pacco consegnato dall’ambasciata alle autorità del carcere di Teheran, che conteneva articoli per l’igiene, quattro libri, sigarette, un panettone e una mascherina per coprire gli occhi. «Non avevo neanche un foglio di carta sul quale scrivere — ha confermato ieri — Non potevo nemmeno tenere gli occhiali».
IL PODCAST E L’ARRESTO
Sala era arrivata nella Capitale iraniana il 13 dicembre con un visto giornalistico della durata di otto giorni. Aveva pubblicato tre puntate del suo podcast quotidiano “Stories”, l’ultima il 18 dicembre (il giorno prima di finire in carcere) in cui riportava l’intervista a un’attrice comica iraniana, Zeinab Musavi, che era stata arrestata in via preventiva per le parole che aveva pronunciato in uno dei suoi sketch. Cecilia il 19 dicembre aveva un appuntamento per un’altra intervista all’ora di pranzo: non è mai arrivata all’appuntamento. È stata arrestata attorno alle 12.30, l’ultimo messaggio che ha inviato alla sua redazione de “Il Foglio” risale a poco prima. Quando non ha inviato l’episodio del podcast di quel giorno, è partito il primo allarme. L’unità di crisi del Ministero degli Esteri italiano, i servizi di intelligence e l’ambasciatrice italiana a Teheran hanno messo in moto la macchina che dopo tre settimane l’ha riportata a casa. Per gli ayatollah Cecilia incarna tutto ciò a cui il regime è più “allergico”: una donna libera e coraggiosa, che ha scelto di dedicare la sua vita al giornalismo, il sale e il fondamento di una democrazia. La sua “storia dal mondo” ha avuto un lieto fine.
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