29.06.2025
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«Se venissimo attaccati non potremmo difenderci. I nostri militari? Non bastano»


Difesa aerea, cibernetica, esercito. Sono questi i tre settori critici della rete italiana della difesa secondo il generale Leonardo Tricarico, consigliere militare di tre premier, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e oggi presidente della Fondazione Icsa. «La valutazione complessiva riguardo allo strumento militare convenzionale è che sicuramente ci manca molto. Non poco, ma tanto. Specie in settori ben identificati. Occorre iniziare e portare presto a termine un ripianamento. Il numero di militari a nostra disposizione è insufficiente, anche per un’evidente crisi vocazionale che ha reso il mestiere delle armi meno appetibile che in passato. I nuovi domini nei quali abbiamo ancora tanta strada da fare sono quelli spaziale e cyber. E l’antiaerea. Se oggi l’Italia venisse attaccata come è Israele dall’Iran, non avremmo la capacità di difendere i nostri cittadini, le nostre città. Abbiamo bisogno di sistemi di medio e lungo raggio, ma anche di breve raggio».

C’è un problema di uomini?

«A parte i numeri dei militari in servizio, c’è una questione aperta che riguarda le forze della riserva, su cui c’è da lavorare da subito. Senza arrivare al modello israeliano, più banalmente si dovrebbero rendere richiamabili tutti coloro che hanno lasciato il servizio attivo da un certo numero di anni. Io, per esempio, dovrei poter essere ancora impiegato in qualche struttura direttiva delle operazioni militari. Ma questo vale anche per gli istruttori di volo, che potrebbero operare fino ai 75 anni, liberando forze giovanili per altre mansioni. E bisogna mettere fine all’operazione Strade sicure, che impiega quasi 7mila militari».

Bisognerebbe riportarli nei ranghi?

«Sì. Siamo seri! Neanche una guerra alle porte è uno stimolo sufficiente a far abbandonare queste iniziative assunte in emergenza trent’anni fa e poi diventate la regola. L’attività di pubblica sicurezza e di ordine pubblico è cosa diversa da quella militare. Questi 6-7mila vanno recuperati subito, anche perché aumentano la sicurezza percepita, ma solo in misura minima quella reale. Dobbiamo invece raggiungere un livello di organici decente per un esercito nazionale».

La guerra ibrida, cyber, ha conquistato una dimensione importante?

«Sulla cibernetica siamo davvero molto indietro, è forse questa la nostra lacuna più invalidante. Bisogna metterci le mani quanto prima, perché il nostro Paese registra ritardi e anomalie non facili da colmare. Mancano pure gli esperti qualificati, si è dovuta abbassare l’asticella portando i possibili candidati da un livello di conoscenze universitarie a quello di una scuola superiore di carattere tecnico».

Che cosa bisognerebbe fare?

«La Russia ha arruolato i criminali. La realtà è che l’Italia dovrebbe arruolare hacker esperti, il che però si scontra con la nostra cultura e con le norme. Chi dice: “Facciamo gli ospedali, invece che spendere per la difesa”, deve capire che gli ospedali possono collassare, per l’intrusione in dati e cartelle cliniche, o per il sabotaggio di elettromedicali serviti da sistemi computerizzati».

Siamo in ritardo anche sui sistemi d’arma?

«Sì. È una lacuna generalizzata. I granai sono vuoti. Noi abbiamo sempre trascurato la disponibilità di armamento nelle quantità necessarie: molti gruppi da combattimento dell’Aeronautica sono assegnati alla Nato, e sottoposti a verifica molto puntuale. Una delle voci è la disponibilità di armamento e nell’imminenza degli esami si facevano le acrobazie perché i conti tornassero. La situazione è disastrosa: occorre individuare realistici livelli di scorta e mantenerli. Mancano missili, bombe, proiettili, materiale di consumo bellico».

In conclusione?

«Quanto a mezzi, l’esercito è quello messo peggio. La Marina vive su un altro pianeta, vorrebbe una portaerei a propulsione nucleare, cioè una proiezione lontana delle forze. Non mi pare una priorità».

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