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«Salgo sul palco per proteggermi da brutte realtà e morali cretine»


Storia di un ragazzo cresciuto a Colunga, frazione di San Lazzaro, dove Bologna è un’eco distante, un miraggio, un’idea, un progetto, un’aspirazione: «il mio tempo da bambino scorreva lentamente ed era scandito dalle stagioni e dal ritmo che all’esistenza imprimevano i miei nonni. Lui era un mercante ortofrutticolo, lei si occupava della casa: una tipica famiglia matriarcale emiliana. Mio padre, nato nel 1924, faceva il medico. Quell’infanzia bucolica, passata tra un ruscello, un campo e un pollaio, ha avuto un ruolo molto importante nella mia crescita artistica». Cesare Cremonini ha 45 anni. Ha vissuto molte vite, pubblicato 8 album, riempito stadi di persone che credono in quello che scrive e cantano le sue parole a memoria. 

Quali erano le parole della sua infanzia? 
«Parole dialettali. Ogni volta che passavo accanto a mio nonno, ma proprio ogni volta, mi diceva: “Me a i’ho la bachatta!, “Ho la bacchetta”, fai il bravo che altrimenti ti frusto». 

Come il maestro di Fellini in Amarcord. 
«Mia nonna era la classica donna angustiata che la domenica, quando andavamo a farle visita, ci aspettava già seduta e già vestita all’alba, sei ore prima dell’appuntamento e che a mia madre aveva cantato la stessa ninna nanna in dialetto che poi mia madre cantò a me». 

Giovanni Cremonini, suo padre, la ebbe che aveva già 56 anni. 
«Era un personaggio particolare, serio e carismatico, ma non mi ha mai dato la possibilità di pensare che fosse vecchio. Quando i miei amici a scuola domandavano “ma è tuo nonno?”, sgranavo gli occhi e rispondevo “non mi sembra molto più anziano dei vostri, anzi”. Papà era il dottore più importante di quella zona rurale, aveva una clientela che per farsi visitare si metteva in cammino, a piedi, per chilometri e incarnava una sorta di guida della comunità. Il carisma faceva dimenticare l’età, l’autorevolezza annullava l’anagrafe». 

Un suo pregio? 
«Trattava i suoi pazienti con lo stesso amore che riservava a me. Anzi, a volte di più. Il rispetto verso la gente derivava dalla gratitudine che provava nei confronti della sua professione e della fortuna di aver potuto studiare mettendo a frutto quel privilegio. Quelli come mio padre si erano fatti da soli, non vantavano antenati illustri e non conoscevano nepotismo. Il mio approccio verso le persone è identico al suo e non l’ho scelto, me l’ha trasmesso». 

Sognava di fare il cantante fin da quando era piccolo? 
«Nella chiesa dei Servi, quella che frequentavo da bambino, c’era il libro delle preghiere per i fedeli. In mezzo a quegli scritti pieni di dolore ci saranno sicuramente le mie: “vorrei diventare un cantante”, “vorrei essere un grande artista”, “vorrei scrivere una nuova canzone”». 

La prima, si intitola proprio Vorrei. 
«Ero rimasto nel salotto di casa, a Fiumicello, mia madre riposava dopo pranzo. Io non ho mai dormito molto nella vita e in quel pomeriggio immaginai una melodia e un testo iniziando a scriverle su un pentagramma immaginario sul soffitto. Non potendo registrare né suonare, per giorni me la cantai da solo per non dimenticarla. È una canzone molto semplice, ma ha una costruzione melodica matura tant’è vero che ancora oggi nei concerti il pubblico vuole sentirla. Mi fa impressione, avevo 15 anni». 

Cosa significa volere scrivere e cantare? 
«Avere un mondo interiore più grande di quello esteriore. Mio padre mi diceva sempre: “Cesare tu non sei distratto come dicono, sei solo troppo concentrato dentro di te”. La musica è stata uno tra i tanti treni che avrei potuto prendere e forse neanche il più importante, ma quando hai qualcosa da dire e sei curioso, che tu voglia fare lo scrittore, il cuoco o l’artigiano, la strada per trovare un linguaggio universale che coinvolga emotivamente gli altri, la trovi». 

Aver bisogno di esprimersi è un indizio di inquietudine? 
«L’inquietudine fa parte della natura umana e la mia vita artistica è un dialogo costante con questo strumento importante per la conoscenza. Un sentimento forse nutrito da ferite profonde che non so da dove provengano e sulle quali non ho voluto indagare troppo. Le ho esorcizzate scrivendo canzoni». 

Le piacerebbe non essere inquieto? 
«Mi spaventerebbe svegliarmi in pace con me stesso, sereno, addomesticato alla felicità, che considero sopravvalutata. L’inquietudine è una compagna fedele, uno stimolo importante che porta all’ossessione ma, cosa ancora più importante, costringe a voltare pagina per vedere quello che succede. Ho trovato il mio un equilibrio nell’instabilità». 

Cos’ha trovato nell’arte? 
«Una protezione dalla realtà, dalla morale cretina, una tutela della mia sensibilità, una zona franca nella quale creare mondi immaginifici che per qualche tempo, mi confortano». 

Ripensa mai a quella cassiera di banca che le dice: “Signor Cremonini, questo conto è sempre in rosso, forse è ora di chiuderlo?
«Che fossi sempre in rosso era vero perché compravo tutti gli strumenti musicali che potevo permettermi con la paghetta dei miei genitori. Poi, come per magia, dopo aver scritto 50 Special, arrivò il primo assegno della Siae. Per me la Siae era un’entità astratta, ma la cifra, 60 milioni di lire, era concretissima. Avevo 18 anni e per la mia famiglia fu un colpo di scena rilevante. Cambiò il nostro rapporto con quel momento. Avevo fatto tutto da solo. Scritto le canzoni, trovato un produttore e portato il mio disco al primo posto in classifica».

Si è mai chiesto come fosse capitato? 
«Mi sono sempre risposto che fu questione di atteggiamento -perché io andavo verso il mondo con la marcia sempre inserita- e ovviamente di sogni, incontri e congiunzioni astrali. La fine degli anni ’90, con un mercato discografico florido, l’avvento di MTV e la globalizzazione della musica, era un ottimo momento per iniziare qualcosa da giovani. Io non feci altro che applicarmi ossessivamente alla materia e per anni, dalla mattina alla sera, mi dedicai unicamente alla mia passione più grande: era comporre e suonare». 

Qual è la prima cosa che le viene in mente ripensando ai suoi inizi? 
«Io e i miei amici in Vespa, smarriti nel centro di Bologna, con gli occhi pieni di gioia, certi che ce l’avremmo fatta. È un ricordo che somiglia a un film ed esiste anche una foto che testimonia quel momento». 

Il disco uscì come indipendente. Come mai i discografici non lo riconobbero subito? 
«I discografici cercavano di imitare qualcosa che stava funzionando altrove e 50 Special era una cosa diversa, non il prodotto di un adulto che mette in bocca a un giovane alcune cose per fargli dire quello che vuole, ma la voce di un 17enne che canta la propria vita. Ci sono la sua verità e la sua realtà, nient’altro. La forza di quel disco sta nella sua spontaneità. I Lùnapop diedero una gomitata al giovanilismo per offrire qualcosa di realmente giovane. Spiegarono la differenza fra giovanilismo e l’essere veramente giovani.». 

Si è mai pronti per un successo come quello? 
«Non lo sei mai perché il destino ti meraviglia, ma si nasce professionisti, non lo si diventa. Ero pronto per esserlo già da ragazzino e non ho mai avuto un momento in cui ho rischiato di perdermi con me stesso. Quando vidi il disco primo in classifica non dissi “ce l’ho fatta”, ma pensai: “La salita inizia adesso”. Occorre molta dedizione. La gratitudine per il successo è la benzina di ogni passione». 

È mai riuscito a godersi il successo? 
«I momenti di puro godimento esistono e li ho assaporati ma riguardano quasi sempre l’assenza di ciò che desidero, il sogno di realizzare i miei progetti, non la loro riuscita: nei 15 giorni in cui lavoro a una nuova canzone prima che sia finita la vita mi appare meravigliosa. Quando sto creando un nuovo spettacolo e cerco di alzare il livello e superarmi sono pieno di slancio. Mentre mi preparo fisicamente per un tour e fatico sulle Dolomiti mi carico di aspettative e sogni. Per il resto penso di non essermi mai goduto il successo fino in fondo, magari ci riuscirò tra qualche anno. Non mi sono mai sentito arrivato a destinazione, non porto orologi costosi e non colleziono auto di lusso. Mi piace molto viaggiare». 

Hai mai pubblicato canzoni di cui non è fiero? 
«No. Anche perché ho sempre lottato affinché venissero pubblicate quelle in cui credevo. Ero certo fossero quelle giuste. Canzoni come Padre Madre, Nessuno vuol essere Robin, Mondo, Marmellata, Sei e ventisei, Sardegna, Dev’essere così non erano comprese dalla mia casa discografica. Ho dovuto impormi con forza per pubblicarle. Oggi sono una parte importante del mio repertorio. E poi c’è un talento che non ho mai avuto. Quello di scrivere a tavolino o su richiesta. Invidio molto chi ci riesce». 

Primo concerto in un cortile estivo bolognese. 
«In un circolo privato, con pochissima gente ma già con le mie canzoni. Andavamo nei pub o alle feste scolastiche e suonavamo con la nostra identità provinciale, felici di sventolarla. Ci pagavano con delle pinte di birra. Noi questo siamo stati e questo abbiamo fatto. Il sapore della prima birra offerta dopo un mio concerto non lo dimenticherò mai». 

Per chi ha scritto in questi decenni? 
«Ho sempre donato una canzone a qualcuno ma ho scritto sempre e solo per me. Non ho mai amato i fan club o le flotte di fan. Ti assicurano numeri costanti ma non fanno per me, semplicemente perché ritengo che il pubblico non debba mai santificarti. Mai. Non sono un pastore evangelico e vorrei continuare così la mia storia. Questo non mi ha impedito di raggiungere un pubblico enorme e di diverse età, l’ho fatto con le canzoni e ne vado fiero».

E qual è la sua storia? 
«Una storia lunga con una cosa unisce tutto. Riuscire a rendere universale un’emozione che non ha voce. Creare interlocutori a distanza. La mia malattia è trasformare la diversità delle persone in una linea sottile che riesca a legarle per mezzo di una canzone o di una melodia». 

Ambizioso. 
«Le cose migliori della vita mi sono sempre successe scrivendo. Si va molto più lontano con la parola scritta. Scrivere è una chiave per molte porte, è un potere che va gestito, un’arma di sopravvivenza, di seduzione e di conoscenza degli altri». 

Lei si sente un provinciale? 
«Non è che mi ci senta, lo sono».

E cosa significa esserlo? 
«Appartenere a quel girone dantesco in cui il dramma della vita si mischia con la provvidenza, la fame di successo con la rivincita, i silenzi e la noia con l’atto intimo e rivoluzionario della creazione. Vivere in provincia inoltre significa avere un contatto con la sconfitta diverso rispetto a chi vive in una grande realtà. L’ironia della vita e della morte viste da più lontano hanno un sapore migliore». 

La critica all’inizio con lei fu severa. Sembravano dirle: “Come ti permetti di essere felice tu che sei giovane?”.
«Con me furono durissimi, ma io ne ero felice perché in quegli schiaffi c’era qualcosa di bello: la certezza della mia esistenza. Oggi la critica musicale è un genere comico, viziato dal presenzialismo dei social, da rapporti personali con le produzioni tv, con gli uffici stampa e gli artisti, mentre all’epoca la discussione era guidata da rompiscatole, magari chiusi dietro alla scrivania delle loro ideologie, però capaci di accendere una discussione stimolante e severa. Si lottava per emergere e restare. Si parlava di contenuti e non solo di numeri». 

Quelli non le erano mancati. 
«E neanche le conseguenze. Bologna è una città con un’enorme tradizione musicale e un approccio diffidente ai fenomeni discografici. Mi ricordo che per strada mi tiravano sassi e bottiglie, che cercavano la rissa, che mi colpivano la macchina. Ero un simbolo di novità e al simbolo andava data una lezione. La provincia sa essere violenta quando vuole e sa esserlo con gusto e compiacimento». 

E quest’ostilità è stata un danno o una benedizione? 
«La pressione esterna ha sempre rappresentato un grande stimolo. Tra 50 Special e il mio secondo disco c’è un abisso di scrittura e profondità in parte figlia di quel clima. Sbattere contro quel muro mi ha insegnato a non accontentarmi, a voler crescere, a non sentirmi stabile e quindi a essere sempre all’inseguimento di un miglioramento, di un passo in avanti, di un’evoluzione che poi in realtà è un modo come un altro per dire: io sono e voi?». 

Nelle more di questa metamorfosi lei passò dal trionfo del suo primo disco alla carriera da solista. Dovette ricominciare dalle piazze in cui si cambiava nei ripostigli dei barbieri e non più nei camerini. 
«Ho ricominciato perché avevo 22 anni e l’energia per poterlo fare. Non ho scelto io di distruggere i Lùnapop, il progetto è semplicemente imploso per colpa di pressioni esterne. Da quel momento mi sono tolto la faccia da pagliaccio e ed è iniziata una carriera di canzoni. E il ricordo che ho non è segnato dall’ansia di tornare in auge, ma dalla consapevolezza che per togliersi le etichette era necessaria una straordinaria determinazione». 

Determinazione che ha prodotto risultati? 
«Per 8 anni, suonando davanti a 200 persone, pochi. Però intanto avevo pubblicato delle canzoni che sono diventate tra le più importanti del mio repertorio. Ci ho messo tanto, ma dopo il mio primo San Siro, nel 2018, credo di aver ricucito lo strappo tra quello che ero e quello che sono». 

Cosa ha capito in questi anni? 
«Che il pubblico, che tu viva o muoia, ha bisogna di divertirsi». 

Il resto? 
«Non è così serio e non è così reale. Siamo su un palcoscenico e non c’è molto altro da dire. Di reale c’è il momento della creazione e la passione, lo studio dello strumento. Se invento ritrovo me stesso, mi sento felice, protetto, realizzato». 

Cosa sente di aver perso superati i 40 anni? 
«Ho lasciato indietro la spensieratezza dello studente che in fondo non ho mai avuto perché quando i miei amici andavano a divertirsi ero troppo impegnato a lavorare ai dischi per diventare un cantante, ma ho trasformato quella mancanza nel desiderio di essere leggero oggi, godendomi le cose fuori tempo massimo. Sono una persona che tende a sentirsi più giovane dell’età che ha e che in un certo senso, con gli strumenti della maturità, è rimasto un ragazzino». 

E cosa ha guadagnato? 
«Il pubblico che mi parla come fossi un amico, un fratello o un parente. Questa intimità con il prossimo è la cosa più bella che ho ricevuto dal mio lavoro. Non ha un prezzo e non ce lo può avere».
 


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