Chi sostiene l’adesione e chi l’astensione: uno scenario politico spaccato sul prossimo referendum. L’8 e il 9 giugno l’Italia sarà chiamata ad esprimersi su cinque quesiti referendari che toccano nodi cruciali dai diritti civili alle regole sul lavoro. Trattandosi di un referendum abrogativo, votare sì significa voler cancellare la norma vigente, mentre chi sceglie il no ne chiede la conferma. Ma la vera sfida, prima ancora del contenuto, è tutta nella partecipazione: affinché il voto sia valido è necessario il raggiungimento del quorum, ovvero che vata a votare il 50% più uno degli aventi diritto. In caso contrario, l’intera consultazione sarà nulla.
Proprio sul quorum si gioca la battaglia politica. Da una parte si schiera il fronte dell’adesione al voto, composto in larga parte da forze progressiste, sindacati e movimenti civici. In prima linea c’è la Cgil, che ha, tra l’altro, promosso i quattro quesiti sul lavoro: abrogazione del Jobs Act, delle regole sull’indennità di licenziamento nelle piccole imprese, della disciplina dei contratti di lavoro a termine e la responsabilità solidale del committente negli appalti. Sostenuta dal Partito Democratico, Alleanza Verdi e Sinistra e +Europa. Per alcuni il referendum è un’occasione per correggere gli squilibri prodotti dalle riforme sul lavoro degli ultimi anni.
Mentre, il Movimento 5 Stelle lascia carta bianca ai propri elettori sul tema della cittadinanza.
L’altro fronte è composto dalla maggioranza, che compatta, rifiuta la logica del referendum e ha scelto di puntare sull’astensione. Una mossa per non raggiungere il quorum e far fallire il referendum. Fratelli d’Italia, il partito della premier Giorgia Meloni, ha ufficializzato la propria posizione attraverso una nota interna firmata dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, dal titolo inequivocabile: “Referendum, scegliamo l’astensione”. La linea è stata immediatamente rilanciata sui social, accompagnata da grafiche e meme polemici, soprattutto contro la segretaria dem Elly Schlein, accusata di voler affossare norme che in passato il suo partito aveva contribuito a introdurre. Il primo a rivendicare pubblicamente la legittimità del non voto è stato Antonio Tajani. Il leader di Forza Italia e ministro degli Esteri ha parlato di “Astensionismo politico”, spiegando che non partecipare al voto è un atto consapevole, non un segno di disinteresse: “Se la legge prevede un quorum, è perché la partecipazione è facoltativa. Non c’è nessun obbligo, e voler forzare gli elettori è illiberale”. Una posizione che ha trovato conferma nelle parole di qualche giorno fa del presidente del Senato, Ignazio La Russa, il quale ha dichiarato apertamente: “Farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa”. “Chi non vota esercita un suo diritto” ha infine aggiunto.
Anche la Lega si è allineata su questa posizione.
Anche nel campo sindacale, il fronte non è compatto. Mentre la Cgil è tra i promotori del referendum e ne ha fatto una battaglia identitaria, diversa è la posizione della Cisl che si è allienata alla maggioranza. Daniela Fumarola, segretaria della Cisl ha dichiarato “Non andrò a votare. Ritengo che lo strumento dei referendum non sia adeguato a risolvere i problemi sul lavoro”. Pur senza lanciare una vera e propria campagna per l’astensione, la Cisl si sfila dalla promozione del referendum e lo boccia. Solo Noi Moderati ha rotto parzialmente il fronte della maggioranza, dichiarandosi favorevole alla partecipazione, ma schierandosi per il “No” ai quesiti.
Anche tra le forze centriste prevale il dissenso. Italia Viva e Azione, pur mantenendo toni diversi, si sono dette contrarie alla maggior parte dei quesiti. Carlo Calenda, leader di Azione, ha bollato la consultazione come “Un pezzo della campagna elettorale di Landini per diventare leader del centrosinistra”, dichiarandosi contrario ai quesiti sul lavoro ma favorevole a quello sulla cittadinanza. Matteo Renzi, da parte sua, ha liquidato il referendum come “Simbolo di una guerra ideologica”.
In un’intervista al Corriere della Sera, l’ex premier ha ribadito che una vittoria del “Sì” non restituirebbe l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma riporterebbe in vigore la meno tutelante legge Monti-Fornero, che prevede comunque un indennizzo, ma con un tetto inferiore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Leave feedback about this