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«Recessione? Possibile». Temu, stop alle spedizioni in Usa


L’ultima volta che non aveva escluso la possibilità di una recessione i mercati erano crollati. E ieri per la seconda volta Donald Trump non ha dato segni di fiducia nell’economia americana: «Tutto può succedere» anche se dopo un periodo di assestamento gli Stati Uniti «andranno alla grande, tutto è ok, siamo in un periodo di transizione». Sono i nuovi estratti di un’intervista che il presidente ha rilasciato a Meet the Press che andrà in onda oggi su Nbc. «E invece ci sono diverse persone a Wall Street che dicono che avremo una grande economia. Perché non ne parlate?», ha aggiunto Trump.

IL TAVOLO

I mercati sono chiusi e dovremo aspettare fino a domani per vedere se questo nuovo segnale di insicurezza riporterà giù Wall Street, che venerdì è riuscita a chiudere in rialzo dopo giorni di perdite. A bilanciare le parole del presidente ci sono i negoziati che andrebbero avanti con alcuni Paesi colpiti dalla tariffe reciproche messe in pausa per 90 giorni, ma soprattutto la possibilità di un dialogo con la Cina, che ha di nuovo detto che «la porta è aperta» per gli Stati Uniti. Ieri sono entrate in vigore le tariffe del 25% sulle parti di ricambio delle auto e lo stop al «de minimis», che permetteva l’ingresso di merci sotto gli 800 dollari senza dazi, una pratica definita da Trump un furto.

Ci troviamo in un momento di confusione e di trattative: si parla di un tavolo con il Giappone, di un accordo raggiunto con l’India, di timide apertura verso la Cina, e poi dell’incontro di questo martedì con il nuovo primo ministro canadese, Mark Carney, che discuterà con Trump di tariffe e rapporti tra i due vicini. Ma proprio tutta questa confusione sta spingendo le industrie americane ad andare alla corte di Trump chiedendo sconti e aiuti. Dopo Walmart, Target e Home Depot, ci sono stati contatti con Nike e Adidas America. Infatti la Footwear Distributors and Retailers of America (Fdra) che rappresenta decine di aziende che producono scarpe, soprattutto all’estero, ha inviato una lettera a Trump chiedendo di non pagare i dazi che farebbero aumentare i costi in modo notevole. Lo scrive Reuters che ha letto una copia della lettera mandata alla Casa Bianca in cui si parla di «minaccia all’esistenza di queste aziende».

Rimangono ancora due buoni mesi per negoziare prima dell’entrata in vigore dei dazi ritenuti reciproci del 20% sulle importazioni dall’Ue che Trump, con una mossa a sorpresa, ha messo in pausa a metà aprile. E serviranno tutti, suggeriscono fonti diplomatiche. Senza colpi di scena all’orizzonte, i contatti tra Bruxelles e Washington continuano con la Commissione europea che ha chiarito di non aver fatto «alcuna offerta formale agli Stati Uniti». Parole che sono sembrate un parziale dietrofront dopo le affermazioni affidate, qualche giorno fa, dal commissario al Commercio (e fedelissimo di Ursula von der Leyen) Maros Sefcovic al Financial Times, in un’intervista in cui suggeriva di aumentare gli acquisti di merci dagli Usa per un valore di 50 miliardi di dollari, così da riequilibrare il surplus commerciale che oggi avvantaggia l’Europa e che Trump vede come il fumo negli occhi. Stando ai dati 2024, l’avanzo Ue nello scambio di merci è pari a circa 200 miliardi di euro, ma il valore si assottiglia di molto quando è controbilanciato con i servizi, comparto che vede invece significativamente in vantaggio gli Usa. Ecco, allora, il senso dell’offerta di Sefcovic: comprare più gas naturale liquefatto (Gnl) e prodotti agricoli come la soia con l’obiettivo ribilanciare le relazioni commerciali ed evitare, alla fine, la scure dei dazi. Il calcolo e la promessa sono, tuttavia, indicativi della volontà di un’apertura politica: è vero che l’Ue ha competenza esclusiva in materia commerciale, ma è altrettanto vero che responsabili delle scelte di acquisto restano le aziende europee.

Dove Bruxelles ha maggiori margini di manovra è, invece, la trattativa diplomatica; e infatti l’esecutivo insiste sulla proposta di zero dazi sui beni industriali — a cominciare da automobili, macchinari, chimica e farmaceutica — iniziativa che rimane sul tavolo come principale carta negoziale. L’Ue non accetterebbe, al contrario, uno scenario in cui il dazio di base del 10% sulla quasi totalità delle importazioni (oggi già effettivo) dovesse rimanere in vigore anche per l’Europa. E sullo sfondo continua la messa a punto del piano B, cioè di contromisure pronte a scattare in caso di nulla di fatto nelle trattative, su cui gli sherpa dei 27 si confrontano in formato ristretto e in dialogo con l’influente capo di gabinetto di von der Leyen, Bjoern Seibert. In quel contesto, prosegue pure il pressing francese — per ora minoritario e in decisa salita — affinché la rappresaglia di Bruxelles prenda di mira non soltanto le merci, ma pure i servizi.

Intanto i numeri di aprile mostrano che gli Stati Uniti hanno raccolto 17,4 miliardi di dollari attraverso i dazi, in rialzo rispetto ai 9,6 miliardi di marzo. Trump ha detto che questo denaro aumenterà sempre di più, senza però calcolare che le importazioni stanno diminuendo, cosa che inciderà di sicuro su quei numeri.

Infine anche Warren Buffett ha criticato la strategia economica di Trump: parlando da Omaha, in Nebraska, dalla conferenza annuale degli investitori di Berkshire Hathaway ha detto che «il commercio non deve essere un’arma» e che le tariffe di Trump sono «un atto di guerra». Il finanziaere ha detto che sono «un grosso errore» e che «non credo sia giusto e non credo sia saggio». E Buffett non è certo il primo finanziere miliardario ad aver contestato le tariffe di Trump: nel gruppo ci sono Bill Ackman, fondatore dell’hedge fund Pershing Square Capital Management e sostenitore del presidente, Tony Pasquariello, il capo del team hedge fund di Goldman Sachs, Jamie Dimon, ceo di JpMorgan, e Larry Fink di BlackRock.

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