La norma non è stata ancora scritta. E la stesura non sarà delle più semplici. Soprattutto perché sarà necessario stabilire esattamente il “perimetro” che il nuovo tetto agli stipendi pubblici dovrà abbracciare. Per ora il punto politico sembra essere chiaro. Il Presidente del consiglio, che ha una retribuzione parametrata a quella dei parlamentari, guadagna circa 80 mila euro netti l’anno. Si tratta di 6.700 euro netti per dodici mensilità. In realtà i parlamentari guadagnano di più con le diarie e i rimborsi che possono gestire in proprio per i collaboratori. Per il resto dei dipendenti pubblici è in vigore invece, un tetto massimo alla retribuzione di poco superiore ai 240 mila euro. Il limite è stato recentemente alzato per permettere l’adeguamento, anche ai dirigenti più alti in grado, agli aumenti previsti dai rinnovi contrattuali. La storia del limite agli stipendi pubblici è iniziata oltre un decennio fa. Il primo a inserire la soglia fu il governo Monti nel decreto Salva-Italia. Il limite però, fu inizialmente stabilito in quanto guadagnato dal primo presidente della Corte di Cassazione, che allora aveva uno stipendio di 311 mila euro lordi l’anno. Poi fu il governo Renzi a dire invece, che la retribuzione massima nella Pubblica amministrazione, non poteva superare quella del Presidente della Repubblica: 240 mila euro, appunto. Renzi fece anche un’altra innovazione. Decise di estendere il tetto anche ai manager delle società pubbliche. Con due eccezioni: le società quotate in Borsa e quelle che, pur non essendo quotate, avevano emesso obbligazioni che invece erano trattate sui mercati. Per sfuggire alla sforbiciata, quasi tutte le società pubbliche iniziarono a emettere questi bond, da Ferrovie, alla Cdp, fino alla Rai. Successivamente, poi, il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, aveva stabilito che fosse emanato un decreto del ministro dell’Economia per dividere le società pubbliche in cinque fasce e stabilire per ognuna un compenso massimo agli amministratori. Questo decreto a oltre otto anni dall’approvazione del Testo unico, non è mai stato emanato.
IL PERIMETRO
Se il quadro è questo, cosa succederà ora? All’orizzonte ci sono sostanzialmente due strade. La prima è stabilire che nella Pubblica amministrazione, società comprese, nessuno può guadagnare più del Presidente del Consiglio. Potremmo definire questa soluzione quella “hard”. Chiunque oggi guadagna 240 e passa mila euro, insomma, dovrebbe scendere a 160 mila euro lordi (più o meno gli 80 mila netti di cui sopra). Dunque rientrerebbero anche i vertici apicali dello Stato, dal Ragioniere generale, al Comandante della Guardia di Finanza, i capi di gabinetto e i Presidenti delle Authority indipendenti, oltre ai manager delle partecipate a cui oggi ancora si applica il tetto dei 240 mila euro. Se così fosse, tuttavia, il “taglia stipendi” non colpirebbe solo i dirigenti apicali, ma una parte consistente anche delle “seconde fasce”. All’Inps, per esempio, la media di stipendio di questi dirigenti è superiore a 160 mila euro. Lo stesso per l’Agenzia delle Entrate. Anche nelle società pubbliche non quotate, una buona parte della dirigenza non apicale rischierebbe di essere colpita. L’effetto collaterale potrebbe essere una ulteriore perdita di attrattività della Pubblica amministrazione. Tanto è vero che il ministro Paolo Zangrillo, che sta lavorando a una riforma delle carriere, aveva proposto di eliminare il tetto agli stipendi nel pubblico impiego.
La seconda ipotesi, che potremmo definire più “soft”, potrebbe essere una norma che introduca i tetti per fasce di reddito solo alle società pubbliche non quotate (quelle inserite nell’Elenco delle partecipate pubbliche censito dall’Istat) allargato anche a enti economici, camere di commercio, enti parchi o fondazioni assistenziali e culturali, escludendo le casse previdenziali. Nei fatti un’attuazione di quanto già previsto dal Testo unico sulle società ma mai attuato. Stando a quanto trapela dal Tesoro — la norma potrebbe vedere la luce anche la prossima settimana — si dovrebbe applicare il tetto soltanto alle indennità dei vertici apicali delle aziende nominati dagli azionisti politici (presidenti e dove sono previsti ad). Il taglio non sarà retroattivo e riguarderà i prossimi contratti. Nella versione finale dovrebbe essere anche inserita una clausola che permette di bypassare i limiti salariali alle realtà che dimostrano una sana gestione finanziaria e rinunciano ai trasferimenti statali. Anche in questo caso bisognerebbe tenere conto degli effetti collaterali sui dipendenti non apicali delle società. L’appiattimento degli stipendi rischierebbe comunque di rendere più difficilmente gestibili e meno competitive le aziende.
Intanto la Cida, la sigla che raccoglie le principali associazioni dei dirigenti pubblici e privati come Federmanager o Manager Italia, ha scritto ai partiti della maggioranza per chiedere un incontro. L’obiettivo è avere un quadro più completo sulla manovra. E da chiarimenti c’è soprattutto la norma sui tetti salariali, reputa nel contesto italiano inapplicabile.
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