IL RETROSCENA
dal nostro inviato a Bruxelles
Raramente la sala della delegazione italiana nell’Europa Building a Bruxelles è stata così affollata. Mai, soprattutto, è stata riempita da undici leader riuniti attorno al tavolo con il presidente della Commissione europea. Mai, per di più, appena qualche minuto prima che si aprissero i lavori del Consiglio Ue. Ieri, tra un pain au chocolat e qualche caffè dettato dall’orario mattutino, è però accaduto.
Con Giorgia Meloni a tirare le redini assieme agli omologhi olandesi e danesi (l’estremista di destra Dick Schoof e la socialista Mette Frederiksen) si è infatti tenuta una riunione utile a rilanciare l’idea che per l’Europa sia arrivata l’ora di cambiare sul fronte delle migrazioni. Un vertice nato sull’onda lunga della lettera inviata da 15 Paesi a maggio scorso alla Commissione europea ieri (mancavano ieri mattina Bulgaria, Finlandia, Romania e i tre paesi baltici, mentre era presente, in più, l’Ungheria) e già pronto ad essere replicato a dicembre, a margine dell’ultimo Consiglio europeo dell’anno, in cui sono distinti per la rigidità delle posizioni il polacco Donald Tusk e il cancelliere austriaco Karl Nehammer.
IL PRESSING
Al netto di certe resistenze sul modello albanese (ieri Olaf Scholz è stato piuttosto scettico in merito), il gruppo di “duri” messo in piedi da Meloni spinge affinché, a prescindere dal modello di riferimento, l’impegno assunto a maggio scorso e in una lettera di pochi giorni fa da von der Leyen per il via libera a «soluzioni innovative» porti a proposte legislative e a risultati operativi immediati.
Le regole attuali sono infatti considerate troppo bizantine e garantiste. Tant’è che se l’obiettivo non è replicare la costruzione dei centri di riconoscimento nostrani a Gjader e Shengjin, né estendere le visioni di Olanda e Danimarca che hanno aperto canali di contatto con l’Uganda e il Kosovo per esternalizzare la gestione dei rimpatri (e non la domanda d’asilo come in Albania), ci si è “accontentati” di accordarsi sulla necessità di intervenire in qualche modo perché — il senso del ragionamento fatto da Meloni — la realtà sta rendendo più urgente creare condizioni tali da garantire un approccio «responsabile e solidale» alla migrazione.
Un concetto, questo, che la premier ha ribadito anche durante il Consiglio e che pare scardinare le resistenze di chi non l’ha particolarmente in simpatia. Non lo spagnolo Pedro Sanchez («Non siamo a favore»), né il francese Emmanuel Macron che ostenta indifferenza per l’iniziativa italo-danese-olandese, ma il premier francese Michel Barnier invece sì: «C’è la volontà che la Francia possa firmare accordi simili a quello fra Italia e Albania».
Non è un caso insomma se è stata von der Leyen stessa, dopo un giro di tavolo dei presenti, ad illustrare i filoni a cui lavorerà la nuova Commissione non appena si sarà insediata: l’implementazione dei return hubs e dei rimpatri volontari assistiti, e la definizione di nuovi criteri per i paesi terzi sicuri in cui poter rimpatriare gli irregolari.
Tutti i presenti, spiegano infine fonti europee, hanno concordato l’importanza di lavorare proprio su quell’«effetto deterrenza» che Meloni da sempre prova ad imporre nell’agenda di Bruxelles.
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