«Chi mette a segno grossi furti, come quello di sabato notte alla gioielleria Bulgari, ha come obiettivo liberarsi della refurtiva il prima possibile, scongiurandone la tracciabilità. E per farlo, solitamente, si usano sempre le stesse tecniche». Il capitano dei carabinieri Giuseppe Giangrande, della Compagnia Roma Centro, ha indagato su un colpo da 800mila euro avvenuto nella notte tra il 2 e il 3 ottobre scorso in un’altra gioielleria della Capitale, situata in via Bocca di Leone, una traversa di via dei Condotti. In quel caso, alcuni dei monili rubati erano stati affidati a fedeli e testati ricettatori che vendevano “porta a porta”; altri erano stati “monetizzati” impegnandoli in società specializzate oppure ceduti a “Compro oro” per fonderli e ricavarne piccoli lingotti.
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Come siete riusciti ad arrivare ai ricettatori?
«Nel corso di alcune perquisizioni abbiamo trovato delle polizze di pegno che avevano a oggetto dei preziosi sottratti dalla gioielleria di via Bocca di Leone. I tre autori del furto si erano avvalsi di una donna esperta nel “ripulire” i monili, che è quindi finita in carcere con l’accusa di ricettazione e riciclaggio. Era lei a stipulare le polizza di pegno, ricevendo in cambio denaro contante».
Quindi per colpi di questa portata, ladri e ricettatori sono figure differenti?
«Sì, è una catena di montaggio con specialità diverse».
Ci sono delle nazionalità maggiormente specializzate?
«L’expertise italiana batte tutti. Ovviamente, per avere una copertura affidabile, ci si affida alla signora apparentemente insospettabile che va periodicamente a vendere i gioielli al Monte di pietà o ai “Compro oro”».
Qual è l’accordo? Si paga prima o dopo aver “piazzato” i monili?
«Non c’è uno schema fisso, dipende dal tipo di rapporto tra il ladro e il ricettatore. Il pagamento può essere immediato oppure differito, una volta “piazzato” l’oggetto. Chi mette a segno questi colpi, cerca di rompere la tracciabilità della refurtiva. Per questo si affida a qualcuno che riesca a dare in pegno quei gioielli in cambio di denaro, che li rivenda a gioiellerie compianti o che li porti ai “Compro oro”, i quali, con la fusione, li rendono irriconoscibili. Questi sono i trend che vanno per la maggiore».
Fondendo o facendo a pezzi i preziosi non se ne perde il valore dettato non solo dal materiale, ma anche dalla firma o dal design?
«Sì, certo. I ladri infatti cercano sempre di rivenderli a degli estimatori, magari all’estero. Ma se non ci riescono, la cosa importante è disfarsene il prima possibile, anche a costo di deprezzare il gioiello, smontandolo. Questo perché ogni giorno che passa è un rischio. Nessuno ruba, come faceva Lupin, per collezionare i monili o indossarli».
Quanto tempo ci vuole per organizzare colpi di questa portata?
«Almeno un mese. Vengono prima fatti appostamenti a tutte le ore del giorno. Anche il minuto esatto in cui agire viene scelto ad hoc, così come i percorsi di fuga. Non sono sprovveduti. Il problema, dal punto di vista investigativo, è risalire il prima possibile agli autori del furto. Così si possono attivare le intercettazioni e sentire come viene “piazzata” la refurtiva. Altrimenti, a distanza di mesi, si sono già liberati degli ori e per la vittima è impossibile recuperarli».
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