Giorgetti va, Giorgetti resta. Piove sul bagnato, nel centrodestra. Non bastava la polemica del 2 giugno, le accuse della Lega al Quirinale, poi in parte ritrattate dal leader Matteo Salvini, che hanno messo in sordina la parata e gli squilli di tromba, acceso le opposizioni. C’è un nuovo caso, mediatico, a tenere banco. Il ministro dell’Economia è ai saluti? Davvero Giorgetti, il vice della Lega e di Salvini, ha il trolley pronto per lasciare via XX settembre?
L’indiscrezione
Il retroscena, lanciato da Repubblica, è un collage di sussurri, sospiri, sfoghi privati del titolare dei conti italiani nelle ultime settimane. Mentre monta la fatica per chi come lui deve tenere stretti i cordoni della borsa. Da un lato il pressing dei partiti con le elezioni europee in dirittura d’arrivo, quella voglia matta di agguantare una bandierina elettorale — tagli alle tasse, mance, riforme — che sempre tenta una maggioranza al governo sotto le urne. Dall’altro i crucci che si sommano, la manovra d’autunno che già si agita come uno spettro sull’estate, mentre lo scenario internazionale impone cautela, l’inflazione resta galoppante, le crisi si moltiplicano.
In mezzo lui, Giorgetti. Che nega, per l’ennesima volta, il retroscena di stampa e di palazzo. Non andrà via, resterà al suo posto, giura questa mattina. «Continuo a fare il mio lavoro come sempre, sto già pensando al piano strutturale». Segue stoccata al giornale che lo ha messo sull’uscio del ministero. «Evidentemente hanno confuso la festa della Repubblica con la festa di Repubblica..». Ecco Salvini a dargli manforte: nessun passo indietro, giura il leader del Carroccio, «solo fantasie dei giornali».
Lo scenario Ue
Una smentita secca e seccata. Anche di quelle voci, che pure riecheggiano come un brusio sullo sfondo, di una tentazione europea del ministro dell’Economia. Che avrebbe già dato disponibilità alla premier Giorgia Meloni per accettare un incarico da Commissario europeo, il prossimo autunno. E’ uno scenario che rimbalza da tempo nei corridoi di Palazzo Chigi. Giorgetti a Bruxelles, sperando che l’Italia ottenga un portafoglio di peso, cioè economico. Velleitario sperare nella Concorrenza, forse, magari si può puntare al Mercato unico o alla Coesione. C’è chi giura perfino che il ministro dell’Economia abbia affinato parecchio il suo inglese in questi mesi, metti mai. E Fratelli d’Italia avrebbe già pronto un piano B. Si chiama Maurizio Leo, viceministro, il super-esperto che ha scritto la riforma del fisco, ascoltatissimo da Meloni.
Giorgetti invece nega, cala il sipario. Un incarico in Ue? «Ho già chiarito cinque anni fa come la penso e non ho cambiato idea». Riavvolge il rullino, il ministro. E il pensiero va al 2019, tutt’altra era, alle elezioni europee vinte in trionfo dalla Lega di Salvini versione sovranista, con il 33 per cento e un governo con i Cinque Stelle che già iniziava a traballare. Anche allora il «Capitano» e vicepremier offrì a Giorgetti, sottosegretario a Palazzo Chigi, la possibilità di traslocare a Bruxelles. Ne parlarono a lungo, alla fine l’uomo di Cazzago di Brabbia disse no. E per farlo varcò perfino il portone del Quirinale: venti minuti di colloquio con Sergio Mattarella. Chiusi all’uscita da uno sfogo in dialetto lombardo affidato alla stampa: «L’e stai me mèt un trapun sott tèra», «è stato come seppellire una talpa sottoterra».
I dubbi
Oggi le voci ritornano: Giorgetti vuole andarsene. Indiscrezioni che si fanno insistenti e tuttavia vanno prese con le pinze. Chi conosce il lumbard da sempre numero due di via Bellerio — con Bossi, Maroni, ora Salvini — conosce anche il suo carattere. Gli sfoghi a cielo aperto, gli sbuffi e le confidenze agli amici, quando i compromessi e le pressioni della politica partitica si fanno asfissianti, soverchiano i doveri e il buonsenso imposti a chi deve governare e amministrare. Succedeva con Draghi a Palazzo Chigi, con Giorgetti ministro dello Sviluppo economico costretto a mediare tra le mille richieste di quella maggioranza caleidoscopica, Lega e Cinque Stelle, Calenda e Renzi, Letta e Berlusconi.
Succede oggi con un centrodestra unito ma spesso in stallo, quando c’è da discutere dei conti. La corsa contro il tempo per il Pnrr, i fondi da trovare per coprire i programmi lasciati scoperti nella rimodulazione del piano europeo, ad esempio quelli degli enti locali, ora in trincea. Le manovre elettorali, le promesse impossibili. E poi ancora i colpi di scena ideati dai «patrioti» a Palazzo Chigi. Uno su tutti: la tassa sugli extraprofitti delle banche italiane introdotta a sorpresa in un Consiglio dei ministri di metà agosto, un anno fa, a cui il ministro, in privato, si è sempre detto contrario.
A volte la stanchezza si fa strada, Giorgetti si lascia andare nei corridoi del suo ministero: «Facessero loro, ora basta…». Ed ecco l’allarme, i bisbigli che parlano di un addio immediato, un rimpasto alle porte. Poi niente. Succede anche in casa Lega, in quel partito che così spesso negli ultimi anni ha deviato dalla linea che il veterano brianzolo ritiene dritta. Gli eccessi sovranisti, le alleanze con gli «impresentabili» in Ue (come i tedeschi dell’ultradestra di Afd, ora scaricati ufficialmente da Salvini e Le Pen), gli attacchi al Colle (l’ultimo ieri) con cui invece il ministro ha un filo (e un feeling) direttissimo. La tentazione di alzarsi dal tavolo, ringraziare e salutare tutti si affaccia anche qui, di tanto in tanto. Ma Giorgetti il soldato non si alza mai.
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