In queste settimane si sente parlare spesso di «maggioranza ursula», in riferimento alla coalizione di partiti e gruppi parlamentari europei che permetterebbe a Ursula von der Leyen di essere rieletta per un secondo mandato alla guida della Commissione Europea, alla stregua di quanto avvenuto, nel 2019, quando la stessa maggioranza le consentì di essere eletta per la prima volta. Ma in questa tornata la coalizione è al bivio: è una maggioranza ammaccata, che ancora deve decidere se andare a destra o a sinistra per rimanere stabile: Ecr o Verdi? Quali sono gli intoppi in cui potrebbe incorrerre? Quali sono le possibilità di manovra?
I franchi tiratori
Intanto Ppe, Pse e liberali hanno raggiunto un’intesa e confermato il “terzetto” per i vertici dell’Unione europea, oltre a Von der Leyen, Antonio Costa al Consiglio europeo e Kaja Kallas alla guida del quasi ministero degli esteri europeo. I leader popolari, socialisti e liberali sarebbero in grado di raccogliere la maggioranza sufficiente al Consiglio Europeo e sulla carta i tre partiti corrispettivi hanno anche i numeri sufficienti in Parlamento europeo, però con un margine limitato: solo una quarantina di voti. Il voto degli eurodeputati è segreto e la percentuale dei franchi tiratori si aggira storicamente attorno al 10%. La somma della maggioranza Ursula fa al momento 399 (189 popolari, 136 socialisti e 74 liberali), 39 più della soglia minima. Ed è un margine troppo labile per dormire sonni tranquilli.
La rottura con Meloni
Tutto è stato deciso, però, senza quasi coinvolgere il governo italiano. Meloni ha avuto diversi contatti telefonici con i negoziatori delle nomine, ma senza poter far contare il suo peso politico. Quando sono trapelate alcune notizie dell’accordo da Bruxelles, a Palazzo Chigi non l’hanno presa bene. E anche la possibile vicepresidenza che verrà data all’Italia non è servita a far sbollire gli animi. Per cui, se fino a una settimana fa non c’erano dubbi che la premier avrebbe garantito il suo sì al secondo mandato di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, in cambio di precise controfferte, l’esclusione di Meloni dalla stanza dei negoziatori starebbe spingendo la presidente del Consiglio a valutare un’altra strategia. E l’astensione sarebbe la strada che è decisa a intraprendere la premier, fresca del suo incontro a Palazzo Chigi con il premier ungherese Viktor Orbán.L’astensione non sarebbe solo una tecnicalità. Per i riti europei, dove di solito si procede per consenso unanime nella definizione dei vertici, una decisione di questo tipo significherebbe una rottura politica.
Verdi o Ecr?
Alla presidente della commissione servirebbe l’appoggio dei verdi (51 seggi) o quello di una parte di Ecr, a cominciare dai meloniani per stare tranquilla. Aritmeticamente farebbe comodo avere entrambi a bordo. Politicamente il discorso è diverso. Ma non tutti sono a favore dell’entrata dei Verdi nella maggioranza. Uno tra tutti, il ministro degli Esteri dell’Italia, Antonio Tajani: «Forza Italia è pronta a votare Ursula von der Leyen ma questo impegno esclude qualsiasi accordo con i Verdi: sì alla von der Leyen, ma senza i Verdi». Lo ha affermato oggi in una conferenza stampa nella sede del partito a Roma. «Domani mattina sarò al vertice del Ppe e ribadirò la mia posizione: occorre rispettare l’esito del voto. Se c’è un accordo a tre, Ppe, Renew e Socialisti non si può certamente aprire ai Verdi e al loro fondamentalismo ambientale. Se si vuole avere una stabilità bisogna cercare il dialogo con i conservatori», ha aggiunto il vice premier. Allearsi con i verdi significa rafforzare le politiche “green”. Fare un patto con i conservatori, guidati dalla premier Giorgia Meloni equivale invece a sposare le politiche migratorie di chiusura sposate dalla destra.
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