L’annuale simposio internazionale di politica monetaria ed economica di Jackson Hole non è in genere un appuntamento da suspence. Eppure ieri, nella spettacolare cornice delle montagne del Wyoming, fra i banchieri centrali e ministri delle finanze di tutto il mondo si rincorrevano discretamente voci ansiose su chi sarà il prossimo capo della banca centrale statunitense. Venerdì, infatti, per Jerome Powell sarà l’ultimo intervento da presidente della Fed all’incontro. E questo suo ultimo discorso arriva mentre la sua politica monetaria è sotto pressione politica da parte del presidente Trump e i mercati soppesano i prossimi passi sui tassi.
Su Powell pesano oramai da mesi gli attacchi di Trump, che lo accusa di non aver tagliato i tassi abbastanza velocemente, e gli imputa la debolezza del mercato immobiliare. Nei giorni scorsi la campagna denigratoria del presidente si è allargata a Lisa Cook, governatrice della Fed nominata da Joe Biden, prima afroamericana a entrare nel board della Fed. Trump ne ha chiesto le dimissioni accusandola di frode ipotecaria nell’ottenere mutui su due case in una manovra che richiama le imputazioni che hanno visto lui stesso condannato in sede civile nel 2024. Si tratta di accuse non confermate né commentate, ma usate dal presidente per tentare di scalzare una delle voci più vicine a Powell proprio mentre la banca centrale affronta decisioni cruciali su tassi e difende la propria indipendenza.
Per molti osservatori si tratta di un tentativo deliberato di screditare l’istituzione e minarne l’indipendenza, un attacco senza precedenti nella storia recente di una grande economia avanzata.
Proprio per questo a Jackson Hole non mancheranno i messaggi di sostegno a Powell da parte dei colleghi: da Christine Lagarde (Bce) ad Andrew Bailey (Bank of England), fino a Joachim Nagel (Bundesbank), e al suo omologo canadese Tiff Macklem, pronti a difendere il principio dell’autonomia delle banche centrali dalle pressioni politiche. Non è la prima volta: già nelle edizioni di Sintra e Basilea i governatori hanno applaudito Powell per aver tenuto il punto, richiamando la lezione di Paul Volcker, l’uomo che negli anni Ottanta riportò sotto controllo l’inflazione americana proprio difendendo l’indipendenza della Fed.
Ma ieri, a surriscaldare l’atmosfera, sono arrivate le minute della riunione di luglio del Fomc dello scorso luglio, che hanno offerto qualche indizio in più sul dibattito interno alla Banca Centrale americana. La Fed aveva lasciato invariato il tasso di riferimento al 4,25-4,50% per la quinta volta consecutiva, ma non c’era stato consenso pieno: due governatori, Michelle Bowman e Christopher Waller, hanno votato per un taglio di un quarto di punto, segnando la prima doppia dissidenza dal 1993. Con la lettura degli appunti si scopre che il Board si trova – come ha commentato il canale di economia Cnbc — «tra Scilla e Cariddi», tra il suo dovere di «tenere fredda l’inflazione» e di «tenere caldo il mercato del lavoro». Il board ha dovuto discutere della forte possibilità che l’inflazione si riveli «appiccicosa» per via dei dazi voluti da Donald Trump, e dei primi inequivocabili segnali di indebolimento del lavoro, in parte causato dal drastico taglio all’immigrazione e all’influenza dell’intelligenza artificiale.
I MERCATI
I mercati hanno avvertito il messaggio, e Wall Street ha chiuso in rosso per il quarto giorno consecutivo, anch’essa, come gli altri mercati, zavorrata dal calo dei titoli tecnologici, e in più dai timori legati all’inflazione che evidentemente resta la principale preoccupazione della Fed. Allo stato attuale i mercati scommettono ancora che Powell e il board si indirizzeranno su un primo taglio dei tassi già a settembre (le probabilità stimate dagli analisti superano l’85%). Venerdì, Powell potrebbe limitarsi a ribadire la prudenza, ma non è escluso che apra la porta a un cambio di passo. C’è attesa anche per capire se annuncerà una revisione del quadro strategico della Fed: tra le ipotesi, c’è infatti l’addio al cosiddetto «average inflation targeting» introdotto negli anni post-pandemici, per tornare a un obiettivo più lineare del 2%.
Ieri sera intanto, i verbali dell’ultima riunione del braccio operativo della banca centrale Usa (il Fomc) hanno messo in evidenza come gli effetti dei dazi sull’economia Usa sono ancora tutti da valutare. A preoccupare i governatori «dissidenti» della Fed più dell’inflazione persistente (ritenuta «improbabile») è invece l’andamento del mercato del lavoro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Risparmio e investimenti, ogni venerdì
Iscriviti e ricevi le notizie via email