Il confronto con Xi Jinping, il piano d’azione triennale, la Rai, i rapporti con la Commissione europea e…«gli spaghetti in brodo». In un angolo della hall dell’hotel Regent, Giorgia Meloni traccia in venti minuti un bilancio dei tre giorni trascorsi a Pechino dicendosi «molto soddisfatta» dai «risultati concreti» raggiunti per «rafforzare la cooperazione» e «riequilibrare la bilancia commerciale». Prima di partire alla volta di Shanghai (la pioggia ha rovinato il piano di una visita alla Città proibita), la premier ha commentato con la stampa il faccia a faccia con il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, sottolineando «franchezza» e «trasparenza» di un confronto incentrato tanto sull’idea italiana «di rimuovere gli ostacoli per i nostri prodotti» esportati in Cina, quanto «sull’agenda internazionale». Una questione «di coerenza» dice la premier, respingendo l’accusa dell’ex premier Giuseppe Conte di aver compiuto una «giravolta» sulla via della Seta. «Io ho sempre detto che l’Italia avrebbe dovuto uscire e che questo non avrebbe compromesso i rapporti» spiega Meloni un attimo prima di lasciare l’hotel a bordo di una Hongqi (letteralmente “Bandiera rossa”) auto di produzione cinese storicamente utilizzata dai funzionari del partito Comunista. «Capisco le sue difficoltà perché promise il riequilibrio della bilancia commerciale» ma «nel 2022 quando siamo arrivati noi produceva un disavanzo per l’Italia di 41 miliardi di euro, quindi evidentemente non ha funzionato».
Se sul fronte economico la missione ha «definito degli accordi di cornice» senza entrare nel merito dei singoli investimenti (e quindi senza chiarire se, quando o quali compagnie cinesi della green mobility apriranno uno stabilimento produttivo nella Penisola) ma affrontando anche i temi della cantieristica navale e della transizione energetica, sul fronte diplomatico la premier e Xi si sono confrontati su Ucraina e Medio Oriente. Il centro delle riflessioni meloniane ha riguardato l’incompatibilità tra «la globalizzazione economica» e «la messa in discussione del diritto internazionale». Ovvero, se il sostegno cinese alla produzione industriale russa è oggi «motivo di frizione» e Pechino dovrebbe «smettere di sostenere» Mosca, bisogna fare in modo che Xi Jinping diventi «soggetto risolutore». Un ruolo che può interessare anche il Medioriente, che «preoccupa molto» Meloni (specie in Libano) per via dell’escalation che «certi attori regionali» sembrano fomentare «ogni volta che ci si avvicina al cessate il fuoco».
Ad una domanda sul suo piatto preferito tra quelli assaggiati durante le cene istituzionali meloni si è rifugiata in un quasi “italiano” «spaghetti in brodo», dando il là alle domande sui temi più nostrani. Dalla Cina la premier infatti conferma i contatti in corso con la Commissione per l’indicazione di un candidato italiano (che però arriverà solo dopo «un confronto con la maggioranza»), smentendo invece il deterioramento dei rapporti dopo la risposta Ue alla lettera inviata da Roma a Ursula von der Leyen sul rapporto sullo stato di diritto. Nessun «momento di frizione» garantisce, ma solo «una riflessione comune sulla strumentalizzazione che è stata fatta di un documento tecnico». Infine la Rai, una «riforma della governance» su cui la premier si professa «laica», le nomine in arrivo «a breve» e il “rifiuto” di TeleMeloni. «Per quello che riguarda le ipotesi di privatizzazione, ho letto queste indiscrezioni — conclude la premier — non so da dove siano uscite, non ho su questo niente da dire, posso solamente confermare rispetto a quello che ho letto, che mi è stato attribuito, che confermo di non avere bisogno di una Telemeloni, non ne ho bisogno, non mi interessa, non la voglio».
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