ROMA Il no a Renzi, lo stallo sulle regionali in Liguria e la mancata condanna di Donald Trump. E dire che per una volta quelli litigiosi erano sembrati i protagonisti del centrodestra. E invece, proprio mentre il campo largo del centrosinistra pareva ricompattarsi sulla battaglia per la cittadinanza ai figli degli stranieri, d’improvviso lo scenario che aspetta Elly Schlein al rientro dalla pausa estiva si riempie di ostacoli. Piazzati, in gran parte, dai Cinquestelle. Eccolo, il campo minato di Giuseppe Conte. La cui intervista concessa a Repubblica viene accolta dal Nazareno tra un mix di silenzi, imbarazzi e reazioni che definire stizzite è dire poco. E che quasi si avvicinano all’aut aut: «Scelga da che parte stare».
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NERVO SCOPERTO
Perché l’avvocato torna a cannoneggiare sul vero nervo scoperto dell’alleanza di centrosinistra, la politica internazionale. Prima definisce «poteri forti» quelli di Washington e Bruxelles, criticando il governo per esservisi «inchinato». Poi torna a criticare la posizione italiana sull’invio di armi all’Ucraina («Per noi una politica progressista è quella che impone una svolta negoziale e si batte per la pace»). Ma soprattutto, proprio aveva già fatto mesi fa con Biden, rifiuta di dirsi a favore di Kamala Harris nella sfida contro Donald Trump. Limitandosi a riconoscere che «come forza alternativa a Meloni dovremo dialogare con qualunque presidente sarà eletto». Mentre sulla possibilità che il tycoon possa rappresentare una minaccia per la democrazia il leader M5S è netto: «Non condivido».
Parole accolte nel gelo dagli alleati del Pd, che nei giorni della convention democratica a Chicago hanno fatto a gara a elogiare Harris. Tace Schlein, fedele alla linea che si è imposta: mai una parola sulle divisioni, per quanto profonde, e insistere solo su «ciò che ci unisce». Così come restano in silenzio gli sponsor contiani di casa dem. Tracima l’irritazione, invece, dal fronte progressista del Pd. Ecco Filippo Sensi, senatore già portavoce di Paolo Gentiloni premier e rimasto vicinissimo a quest’ultimo: «Non basta dirsi progressisti per esserlo», va giù duro Sensi. Per il quale le parole di Conte evidenziano «una idea di politica estera populista e radicalmente opposta a quella democratica. Usa, ucraina, italiana». Chiede «chiarezza e rigore sui valori» Pina Picierno, vicepresidente dem dell’Eurocamera: «Trump è un pericolo per la democrazia, non un candidato qualsiasi. Sottovalutarlo significa non avere chiare le sfide che il fronte progressista si troverà davanti». Un filo più conciliante Alessandro Alfieri. Che sceglie di concentrarsi su ciò che nelle frasi dell’avvocato «c’è di positivo, come l’apertura sui temi della convention democratica. Ma è chiaro – prosegue il responsabile riforme della segreteria dem – che chi si dichiara progressista non può avere dubbi su che parte stare negli Stati Uniti. Né, se si vuol costruire un’alternativa credibile, si possono nutrire incertezze sulla collocazione internazionale dell’Italia».
Eppure l’incertezza c’è eccome. E non solo sui nodi della politica estera (su cui si smarca da Conte Alessandra Todde: «Io voterei Harris»). In Liguria, altro fronte caldo, entro il week-emd era atteso il via libera al candidato in pectore del campo largo alle Regionali Andrea Orlando. Via libera che – anche per via della mossa dei 5S locali che hanno lanciato la carta alternativa di Luca Pirondini – non è arrivato. Così l’ex ministro pd sfodera l’ultimatum: «Bisogna fare presto. Se la mia candidatura non serve, ne va verificata un’altra». Tradotto: se non si chiude entro qualche giorno, Orlando è pronto a revocare la sua disponibilità a correre.
GRILLO E «L’ARGENTERIA»
E poi c’è il capitolo del no a Matteo Renzi. Scandito con sempre più decisione sia da Conte che dalle prime file pentastellate. Come Stefano Patuanelli, che da Rimini avverte: col leader di Iv «non si possono fare alleanze. Renzi i governi li fa cadere, non li crea».
Ma se la ripresa per Schlein si annuncia complicata, non più in discesa sembra quella di Conte. Alle prese col processo di costituente stellata, su cui torna a farsi sentire Luigi Di Maio. Beppe Grillo, dice l’ex “capo politico”, potrebbe fermare il prossimo voto sulla regola del doppio mandato e sulla modifica del simbolo M5S ma «non lo farà»: «Sembra che abbia smarrito il suo coraggio. E forse le ragioni sono almeno 300mila», punge, alludendo al contratto di consulenza 300mila euro l’anno a vantaggio del Garante. Infine, la previsione di Di Maio sul futuro del fondatore: «In pochi mesi – ironizza – Conte gli porterà via anche l’argenteria. E poi gli cancellerà il contratto di consulenza».
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