Ieri è arrivato un nuovo stop dei giudici al trattenimento dei migranti nei centri voluti dal governo italiano in Albania. I sette egiziani e bengalesi richiedenti asilo che, sulla nave Libra, al suo secondo viaggio, sono attraccati venerdì scorso a Shengijn, non possono rimanere lì. Nella notte, a bordo della nave Visalli, sono arrivati al porto di Brindisi e sono stati accolti in una struttura per richiedenti asilo, dove ora potranno seguire l’iter ordinario di esame della domanda. All’origine dello stop dei giudici, la solita questione dei paesi sicuri. Che, ancora una volta, ha spinto i magistrati della sezione immigrazione del Tribunale territoriale di Roma a imporre il proprio niet, l’ennesimo. Anche questo come prevedibile mal digerito dalla maggioranza tutta, che è tornata a scagliarsi contro la magistratura che — diceva ieri l’esponente azzurro Gasparri — tenta di sostituirsi al governo.
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I motivi del nuovo stop
In verità, la decisione del Tribunale di Roma di ieri è diversa dal primo stop dello scorso 18 ottobre.
In quel caso, i giudici non avevano convalidato il fermo. Ieri, invece, ad essere disposto dai magistrati è stato il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di giustizia Ue, la stessa scelta fatta qualche giorno fa dal Tribunale di Bologna. La questione centrale — rimandata ai giudici del Lussemburgo — resta appunto la definizione di Paese sicuro.
E il Bangladesh, così come l’Egitto, i luoghi di provenienza anche del secondo gruppo di migranti sbarcato in Albania, è ritenuto un paese non sicuro. Poco importa che il governo abbia elevato a legge la propria lista: i Tribunali continuano a disapplicarla e a fare fede alla sentenza della Corte di giustizia dell’Ue del 4 ottobre, che considera «sicuri» solo gli stati che lo sono in tutto il territorio.
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Così ieri il Tribunale di Roma — che ha motivato in 50 pagine la sospensione del giudizio — ha posto alla Corte quattro quesiti per comprendere, tra le altre cose, se sulla questione paesi sicuri prevalgano le norme nazionali o comunitarie. Per i giudici, il decreto approvato dal governo a fine ottobre rappresenta un’interpretazione della sentenza della Corte di giustizia Ue del 4 ottobre «divergente da quella seguita dal Tribunale di Roma nei precedenti procedimenti di convalida delle persone condotte in Albania e lì trattenute».
I quattro quesiti alla Corte di Giustizia Ue
Come si diceva, i quesiti inviati dal Tribunale di Roma alla Corte di giustizia Ue sono quattro. Il primo chiede di stabilire se l’elenco dei Paesi sicuri possa essere deciso solo dal legislatore ordinario, come vorrebbe il governo Meloni. Il secondo si interroga sulla liceità della novità introdotta dal governo col decreto di ottobre, ovvero quella di non ritenere più necessario il riferimento a schede informative sui Paesi esaminati al fine della loro inclusione nell’elenco di quelli sicuri.
Rispondendo al terzo quesito, i giudici europei dovranno invece stabilire se i magistrati potranno «servirsi di proprie fonti informative qualificate al fine di ricercare ed acquisire elementi di conoscenza che possano essere confrontati con quelli su cui si fonda la qualificazione di uno Stato terzo come Paese di origine sicuro». L’ultimo dubbio riguarda l’ormai nota sentenza della Corte Ue del 4 ottobre, che stabiliva appunto che un Paese potesse considerarsi sicuro quando lo era in tutto il suo territorio.
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I giudici europei però non si erano espressi sull’esclusione di alcune categorie di persone. Così il Tribunale di Roma ha rimandato la questione alla Corte Ue ritenendo «l’applicazione di una procedura accelerata» qualcosa di «incompatibile con l’esistenza di situazioni di persecuzione, discriminazione e maltrattamento come quelle relative a categorie di persone».
Il Viminale si costituirà di fronte alla Corte Ue
Da parte sua, il Viminale si costituirà di fronte alla Corte di giustizia Ue per sostenere le proprie ragioni dopo la sospensione della convalida del trattenimento in Albania dei sette migranti. Il Ministero dell’Interno è pronto a ribattere di fronte alla Corte di giustizia Ue. «Faremo le nostre contro deduzioni» hanno spiegato ieri fonti del dicastero guidato da Matteo Piantedosi, che sottolineano pure come, anche in questo caso, si tratti di «una strategia identica» a quella adottata quando il Tribunale di Roma ha sospeso il decreto interministeriale sui Paesi Sicuri spingendo il governo al varo del decreto poi finito all’interno del Dl Flussi.
Certo è che dall’esecutivo un passo indietro sul modello Albania non viene lontanamente contemplato, checché ne dicano i giudici. Il ritornello da Palazzo Chigi sarebbe sempre lo stesso: «Per noi non cambia niente, andiamo avanti».
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