15.05.2025
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Politics

Meloni non chiude a von der Leyen, ma punta alla conta in Aula. Lo spettro dei franchi tiratori per alzare la posta sulle deleghe


Telefoni spenti. Diplomatici e note taker fuori dalla sala. Fiori di zucca ripieni sul tavolo accanto ai top job. Quando la cena comincia, per Giorgia Meloni è l’ora di entrare in scena. O, per dirla con le parole dell’olandese Mark Rutte, prendere parte «all’unica volta» ogni cinque anni in cui i Ventisette «fanno politica». Non a caso dopo essersi mostrata «collaborativa» nel pomeriggio sui dossier trattati al Consiglio (Ucraina e Agenda strategica), finendo con il mediare tra le diverse sensibilità dei leader, la posizione italiana all’ingresso si fa durissima: «Oscilliamo tra il “no” e l’astensione» confida Meloni ai suoi. E infatti quando il presidente del Consiglio Ue passa alla chiama, la premier si astiene sul bis di Ursula von der Leyen e vota contro sia al socialista Antonio Costa come numero uno tra i Ventisette sia alla nomina dell’ex premier estone (liberale) Kaja Kallas ad Alto rappresentante per la politica estera. La posizione preannunciata dalla premier è infatti non concedere alcunché a chi l’ha tenuta fuori dalla trattativa per definire i nomi in corsa. Al punto da stoppare l’idea di non andare al voto, avanzando per consenso, lanciata da alcuni leader. Meloni tiene a sottolineare le proprie scelte, specie quella dell’astensione su Ursula, motivata dal «rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo». Tradotto: impallinare la candidata del Ppe, in cui milita Antonio Tajani, non poteva essere un’opzione ma attenzione, il sostegno in Aula non è scontato. A maggior ragione se, come sottolinea Palazzo Chigi, bisogna ancora «conoscere le linee programmatiche» che guideranno il nuovo corso o avviare «una negoziazione sul ruolo dell’Italia».

Nomine Ue, il no di Meloni: e su von der Leyen si astiene. La premier: «Vergognoso se ce la facessero pagare»

La partita

Non a caso la «vera partita», garantisce chi è in prima linea accanto alla premier durante le trattative, «si gioca il 18». E cioè, il giorno in cui von der Leyen si dovrebbe sottoporre alla prova dell’Europarlamento. L’Italia arriva mettendosi nella condizione di continuare ad alzare la posta sulle deleghe del nuovo commissario, puntando ad almeno tre tra Bilancio, Coesione, Pnrr, Concorrenza e Mercato interno. Scenario che se da un lato rafforza la posizione negoziale della premier, dall’altro apre alla possibilità che i sostenitori di Ursula provino ad attingere ai 54 voti dei Verdi per allontanare gli spettri del voto segreto. Anche perché il “no” a Costa e Kallas arrivato nella notte inevitabilmente inasprisce la partita nei confronti dei conservatori. Più che una possibilità, quella di un massiccio numero di franchi tiratori diventa quindi quasi una certezza. Con Meloni che — se non accontentata — proverà a contare non solo sulla sua delegazione, ma pure su un fronte interno al Ppe che non intende aderire ad una maggioranza piegata verso il centrosinistra. Una compagine capeggiata proprio da Tajani e da Manfred Weber, che potrebbe valere poco meno di un terzo dei voti popolari (una sessantina su 189) e quindi potrebbe avere i numeri per riportare al punto di partenza l’Ue, rispedendo al mittente la candidatura della politica tedesca. Una prova di forza a cui Meloni preferirebbe però non ricorrere, pur agitandola per dimostrare di non aver ceduto. Già nella notte la premier ha costruito le basi per una narrazione contro chi ha provato a metterla all’angolo o a incastrarla in dinamiche particolari. In primis a chi come Matteo Salvini pensa che «quello che sta accadendo» sulle nomine Ue «puzza di colpo di Stato».

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