La via stretta per spedire aiuti militari all’Ucraina, ora che una tregua obbligata si staglia alla vista di Zelensky . Con la Cina, un giro di vite sugli investimenti in settori sensibili per la sicurezza. E poi la sfida della Difesa europea, il vincolo del 2 per cento del Pil impegnato per aumentare la spesa militare, come chiede la Nato, senza però «pesare sui cittadini». Al governo ripetono come un mantra: con Donald Trump alla Casa Bianca «non cambia nulla». Amici e alleati come prima, Italia e Stati Uniti, questa è la versione di rito. Eppure un deciso, sia pur discreto cambio di passo sul fronte diplomatico è già visibile nelle scelte e nelle prime parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni da quando il ritorno alla Casa Bianca del Tycoon è diventato ufficiale.
IL MONITO
Merita un replay l’invito rivolto all’Ue da Meloni a margine del vertice di Budapest. Perché «trovi la quadra» da sola, dai dazi alle spese militari, senza aspettare il pronto-soccorso americano: «Non chiederti cosa gli Stati Uniti possano fare per te, chiediti cosa l’Europa debba fare per se stessa». Trump, il presidente allergico alla Nato e alle organizzazioni internazionali, ci metterebbe la firma. Incognite tante, certezze poche. Meloni ha ancora i galloni della presidenza G7, ai suoi confida come sia un «errore» rincorrere Trump a suon di tweet festanti (come fa invece Matteo Salvini) e per questo anche all’indomani del 5 novembre, a cose fatte, ha scelto un registro discreto. Auguri ufficiali, buon lavoro «al presidente Trump». Con licenza per i vertici di Fratelli d’Italia, qui e lì, di uno sfogo liberatorio e meno istituzionale contro «la sinistra» e «certi giornali» che avevano previsto un successo a valanga di Kamala Harris. Fin qui la forma. Poi c’è la sostanza di una linea diplomatica che, piaccia o no, dovrà adattarsi al (nuovo) ciclone Trump. L’Ucraina resta un cruccio per la premier. Decisa a non rinnegare il sostegno ferreo a Zelensky. Rimodularlo invece si può. Da mesi a Palazzo Chigi, anche per scongiurare frizioni con la Lega, si fa slalom nei comunicati, si evita per quanto possibile di parlare di «armi». Accortezze che tengono conto della stanchezza dell’opinione pubblica europea per l’invio di munizioni e armi a Kiev — quella italiana non fa eccezione — e si tradurranno in atti concreti. Tra la fine dell’anno e l’inizio del prossimo, prima che Trump prenda posto nello Studio Ovale, l’Italia appronterà un decimo pacchetto di aiuti militari. Meno pesante, quanto a rifornimenti, rispetto a quelli precedenti. Scelta poco ideologica, molto pragmatica. Intorno al 20 settembre, passando dalla Polonia, è arrivato in Ucraina il secondo Samp-T italiano, la batteria anti-missili agognata da Zelensky per creare uno scudo intorno alle città contro i lanci russi. Gli ucraini vorrebbero una terza batteria, ma privarsene significherebbe sguarnire le difese italiane (in tutto il Paese ne ha 5): niente da fare. Mentre dovrebbe essere confermato il via libera all’esercito ucraino per utilizzare i due satelliti mobili Cosmo Sky-Med, gli “occhi” italiani che dall’inizio della guerra permettono alle truppe di Kiev di individuare le postazioni russe (ma solo in territorio ucraino: la cooperazione si è fermata durante l’operazione nella regione russa di Kursk). E ancora: da mesi gli ucraini pressano Roma perché invii gli M-113, cingolati per il trasporto delle truppe. Nel deposito militare di Lenta, il “cimitero” dei carri armati obsoleti in Piemonte, ce ne sono tra i 400 e 500 fermi e inutilizzati. Problema: alcuni dei più vecchi hanno componenti in amianto e la legge italiana impedisce di venderli all’estero. Servirebbe dunque una costosa, impegnativa riparazione a spese del governo. Si vedrà.
IL CAMBIO DI FASE
Di certo c’è che i tempi degli invii “pesanti” a Kiev sono finiti. E non è l’unico cambio di passo. L’elefante nella stanza, per la Trump-diplomacy, si chiama Cina. Un anno fa Meloni ha ufficialmente abbandonato la Via della Seta come da tempo auspicava l’alleato americano.
Per poi rilanciare i rapporti con Pechino durante il viaggio di fine luglio. Tuttavia negli ultimi mesi, e al netto della visita di Stato di Mattarella in corso a Pechino, ai piani alti dell’esecutivo si è fatta strada una certa cautela. All’insegna del motto: sicurezza first. Nasce anche con questa logica il patto tra intelligence e università appena annunciato dal governo per fermare le «ingerenze di Stati stranieri» nella ricerca italiana. Della Cina non fa menzione, ma è l’ovvio convitato di pietra. Come non è casuale la crescente attenzione a Palazzo Chigi sugli investimenti cinesi. Al monito del ministro Giorgetti durante uno degli ultimi Cdm sono seguiti i fatti: il governo ha bloccato con il golden power la joint venture tra la cinese Shenyang Aviation Industry Group e l’italiana Manta Aircraft per la produzione di velivoli ibridi. Segnali e indizi che si sommano. Preparano il terreno per altri quattro anni di Trump.
Francesco Bechis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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