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«L’istruzione oggi non risolve il nodo crescita-sociale dei giovani»


Un ragazzo su 4, che non ha genitori laureati né diplomati, abbandona gli studi. Un rischio altissimo di dispersione, dunque, a cui non si riesce a porre rimedio. E solo uno su dieci può sperare di arrivare alla laurea.

Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, l’istruzione come ascensore sociale proprio non funziona?

«No, purtroppo non funziona. O meglio si blocca in terza media, quando bisogna compiere la scelta dell’indirizzo di studi di scuola superiore. È lì che si vede la differenza. È chiaro che esiste un vantaggio a favore dell’alunno che proviene da una famiglia dove c’è almeno un genitore laureato».

Un vantaggio economico?

«Non solo. Esiste un vantaggio economico probabilmente ma anche di attenzione perché i genitori si occupano maggiormente degli studi del figlio. In un Paese moderno vorremmo una scuola che riesca a compensare questi svantaggi che non sono eliminabili altrimenti. Ci deve pensare la scuola a seguire e a indirizzare gli studenti. Sarebbe un cambiamento epocale».

Che tipo di cambiamento?

«Immaginiamo il figlio di un avvocato che sceglie di seguire studi tecnici, senza dover per forza fare il liceo e poi legge all’università. Sto semplificando molto il discorso ma credo sia chiaro: in questo modo il figlio di una famiglia di immigrati può fare il liceo classico o scientifico perché ha i numeri per farlo, anche meglio del figlio del laureato. Ma per il momento non è così».

Serve un orientamento più mirato?

«Sì, il divario emerge con forza al momento della scelta della scuola superiore: un’altissima percentuale di coloro che scelgono un liceo classico o scientifico ha genitori laureati. Se mamma e papà hanno la terza media la scelta ricade sui professionali. Serve un vero orientamento affinché la preferenza per la scuola superiore non sia dettata dalla famiglia di origine ma dalle attitudini. Voglio specificare che i percorsi tecnici e professionali hanno le loro importanti caratteristiche e sono questi infatti a mancare nella percentuale Istat dei laureati italiani».

In che senso?

«In Italia tocchiamo la soglia del 30% di laureati tra i giovani, è un dato importante ma ancora troppo lontano dall’obiettivo del 45%. Ci manca quella parte di offerta formativa professionalizzante che nel resto d’Europa conta anche dieci punti percentuali, sono i percorsi terziari professionalizzanti».

Ad esempio gli Its, gli istituti tecnici superiori: in Italia non decollano?

«Gli Its alzano notevolmente il livello di competenze pratiche e della formazione professionalizzante, ma per ora ce ne sono circa 150 ed è ancora un fenomeno di nicchia. Sarebbe opportuno che anche le università entrassero nel mondo della formazione professionale».

Il mercato del lavoro, oggi, offre meno opportunità ai giovani rispetto al passato?

«I dati Unioncamere segnalano che anche nei mestieri meno qualificati c’è una forte domanda di lavoro: il problema è semmai se le competenze sviluppate a scuola e all’università collimano con le aspettative delle imprese e, dall’altra parte, se le imprese sono in grado di valorizzare anche economicamente i talenti dei giovani».

La laurea resta comunque una forma di garanzia per entrare nel mondo del lavoro, sarà sempre più importante?

«Sì, sono convinto che la laurea protegga dalla disoccupazione, dobbiamo dire ai giovani che studiare conviene sempre: un buon titolo di studio aiuta contro i rischi del mondo del lavoro a cui i giovani andranno incontro. Tra questi c’è anche il divario di genere».

Le studentesse restano indietro, anche se studiano di più. Come si supera?

«Serve un cambiamento culturale. Comunque anche in questo ambito le ragazze trovano vantaggi dal titolo di studio. Tra i laureati infatti il tasso di occupazione delle ragazze si avvicina a quello dei ragazzi. Il divari si assottiglia con il crescere di livello del titolo di studio. Mi sembra un dato positivo. Resta invece il gap nelle materie Stem».

Anche nel mondo del lavoro?

«Nell’ambito Stem c’è un minor tasso di occupazione delle donne. Su questo bisogna lavorarci bene: sempre a partire dalla scelta della scuola superiore. Nei percorsi tecnici, ad esempio, le ragazze sono sempre in minoranza».

La buona notizia riguarda i Neet, qualcosa sta cambiando?

«E’ la buona notizia più attesa. Stavamo aspettando questi dati incoraggianti perché l’occupazione giovanile in Italia sta crescendo robustamente da due o tre anni. Il dato è sempre preoccupantemente elevato ma è in calo marcato. I tassi di occupazione stanno salendo rapidamente tra i giovani, si tratta di un trend importante per un Paese, come l’Italia, che da 40 anni vede i tassi occupazione giovanili non adeguati alle necessità reali».

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