«Serve un sussulto, o l’Europa, che è nata come un sogno, rischia di restare solo un sogno», Dominique Moisi sa di essere pessimista, lo rivendica. Esperto di relazioni interazionali, autore di un bestseller della materia, “la Geopolitica delle emozioni”, fondatore dell’istituto francese delle Relazioni Internazionali, ha insegnato a Harvard e al King’s College. E, nelle sue riflessioni, c’è buona parte di quel comune sentire espresso – recentemente – anche dal presidente francese Macron o, sun un altro versante, da Mario Draghi. L’Europa, anche alla luce della vittoria di Trump negli Stati Uniti, è davvero di fronte ad un bivio: rilanciare, andando verso una maggiore unità d’intenti, oppure accentuare le divisioni, i nazionalismi, che stanno emergendo in diversi Paesi e che, 35 anni dopo la caduta del Muro di Berlino, rischiano di tirare su altri muri, figurati e non.
Professor Moisi, ci dica: l’Europa, intesa come Unione Europea naturalmente, è pronta al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca?
«Purtroppo credo di no. Non c’è mai stato tanto bisogno di Europa come oggi e invece mai come adesso l’Europa è sembrata tanto distante. Ed è proprio l’elezione di Trump a rendere l’Europa più necessaria e a rendere l’Europa più difficile. Il suo arrivo alla Casa Bianca suona per i populisti come lo squillo di trombe che arrivano da una cavalleria».
Eppure a Bruxelles, anche in queste settimane, si fatica a comporre la nuova Commissione, mentre Trump – fatte tutte le debite proporzioni e distinzioni – ha schierato la sua squadra in un baleno. Le lettere di incarico inviate da Von der Leyen ai futuri commissari sembrano già obsolete. Il vecchio continente è condannato a restare nel vecchio mondo?
«È così. L’idea fondatrice sia dell’America che della Nato, l’Alleanza atlantica, – cioè il motto dei moschettieri: “Uno per tutti, tutti per uno” – oggi è diventata: niente per voi e tutto per me. È questa potente logica nazionalista a rendere l’Europa quasi anacronistica. Siamo nel trionfo nelle emozioni e le emozioni ai giorni nostri sono diventate nazionali, non multilaterali. Non siamo riusciti a creare un’emozione europea e ora stiamo riprecipitando nell’emozione nazionale. E quindi adesso è anche legittimo chiedersi oggi se il sogno europeo, nato nel dopoguerra, non era altro che un sogno».
Ma secondo lei, per l’Unione europea è possibile che si arrivi ad un reset completo, in così poco tempo?
«Succederà solamente se i cittadini europei cominceranno a realizzare che devono esistere senza l’America, se – tanto per cominciare – saranno in grado di aumentare in modo importante il bilancio degli armamenti, per arrivare ad una vera difesa comune. La Russia rappresenta una minaccia reale. Ma fino a qualche tempo fa lo sapevano quasi esclusivamente i Paesi ad Est e a Nord dell’Europa. Ora, dopo l’invasione di Putin all’Ucraina, lo sanno anche i paesi a Ovest e a Sud. Abbiamo bisogno di una scossa, di un sussulto. Dobbiamo resistere ai populismi al nostro interno e, all’esterno, all’assenza dell’America e alla presenza troppo forte della Russia. Il mondo è minacciato da due pericoli: Trump e Putin, l’Europa dai populismi e dai regimi totalitari».
Quali sono le vere debolezze europee?
«Fondamentalmente una: la divisione. Abbiamo visto che tra Francia e Germania non c’è più nessuna unità di pensiero, che tra nord e sud ci sono priorità sempre più diverse. Poi da questa divisione nasce una mancanza di volontà, oppure quest’ultima è il risultato della divisione. Non sono per niente sicuro che ci sia una reale volontà di superare le divisioni. Ultimo esempio: la telefonata di Scholz a Putin. Non credo sia stato mosso da un interesse per il futuro dell’Ucraina o dell’Europa, ma da un interesse per le prossime elezioni in Germania. L’obiettivo è sedurre quelli che hanno una visione, se non positiva della Russia, di certo negativa della guerra».
Cosa rischiamo?
«La finlandizzazione di un’Europa schiacciata dai populismi».
Ursula von der Leyen è la persona giusta?
«Lo spero. Ma vedo anche una sorta di ‘macronizzazione’ del personaggio, nel senso che tende sempre più a decidere da sola, in modo verticale, dando poco credito agli altri».
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