10.05.2025
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Politics

l’età dell’oro resta lontana. Wall Street arretra, le famiglie temono recessione e inflazione


Centro giorni non sono molti. Ma forse abbastanza per far comprendere a Donald Trump che il mondo che si è trovato davanti è profondamente cambiato rispetto a quello che aveva lasciato al suo primo giro alla Casa Bianca. E di fronte alle sua azioni non ha, probabilmente, tenuto le reazioni attese. In tre mesi, hanno calcolato gli analisti di Unicredit, il Tycoon ha emesso 137 ordini esecutivi, più di qualsiasi altro presidente americano della storia. Ognuno di questi “proclama” contiene la promessa di una rivoluzione. Riportare la manifattura in America applicando dazi in giro per il mondo, fare degli Stati Uniti la capitale delle criptovalute, ridurre i prezzi dell’energia e dell’inflazione, rifare, come nelle promesse elettorali, «grande l’America». Le cose non stanno andando proprio così. I primi cento giorni dell’amministrazione Trump, sono stati i peggiori per Wall Street dai tempi della presidenza di Richard Nixon. Il listino principale americano, dal 20 gennaio al 25 aprile, ha perso quasi l’8 per cento. Le magnifiche 7, le grandi società tecnologiche da Apple a Meta, passando per Nvidia e Microsoft, sono arrivate a perdere 4 triliardi di capitalizzazione, salvo poi recuperare nelle ultime settimane. E infatti il bilancio poteva essere peggiore, se Trump non avesse deciso di “congelare” per 90 giorni i dazi imposti il 2 aprile durante il “Liberation day” a quasi tutti i partner commerciali degli Stati Uniti. Poco male, si potrebbe dire. Quel giorno Trump si è presentato con al suo fianco Brian Pannebecker, un operaio in pensione di Ford. Questo per dire che più che a Wall Street il presidente americano è interessato a Main Street, l’uomo comune che lo ha votato. I grandi capitalisti insomma, se la possono cavare da soli. Il messaggio ovviamente non è piaciuto ai suddetti. Da Jamie Dimon, gran capo di Jp Morgan a Larry Fink di Blackrock, hanno avvisato Trump che le sue politiche tariffarie stanno rischiando di portare l’America alla recessione. Qualche giorno fa il Fondo monetario ha ridotto le stime di crescita per gli Stati Uniti all’1,8 per cento quest’anno dal 2,4 per cento di quello appena trascorso.

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LA REAZIONE

Sugli allarmi dei banchieri e sui dati economici Trump ha fatto spallucce: bisognerà soffrire un poco, ha detto, poi le cose andranno per il verso giusto. Ma cosa lo ha convinto allora a congelare i dazi? Il fatto che dopo il 2 aprile è successo qualcosa di impensabile: è iniziata una fuga di capitali dai T-Bond americani, che ha spinto i rendimenti sui titoli di Stato della superpotenza statunitense, fino a quel momento considerati uno dei porti sicuri per eccellenza, quasi al 5 per cento. Con trentaseimila miliardi di debito sulle spalle da rifinanziare, Washington non si può permettere che gli investitori trattino l’America alla stregua di un Paese emergente e il dollaro come una valuta minore.

Ma torniamo alla guerra dei dazi. Non si può dire che Trump la stia vincendo. Anzi, se Wall Street piange nemmeno Main Street se la passa bene. In America la fiducia dei consumatori, misurata dal Conference board, continua a scendere. Sono quattro mesi consecutivi che va giù. I dazi sono in cima alle preoccupazioni delle famiglie americane. Temono che le tariffe possano aumentare i prezzi e avere un impatto negativo sull’economia. Le attese di inflazione dei consumatori a un anno da oggi, sono balzate al 6 per cento.

Non va dimenticato che Trump era arrivato alla Casa Bianca spinto proprio sull’aspettativa che sarebbe riuscito a vincere il caro prezzi. Inoltre si sta concretizzando un altro pericolo: che nelle prossime settimane nei grandi magazzini americani si svuotino gli scaffali. Trump ha congelato i dazi per tutti tranne che per la Cina, dove invece rimangono in piedi le tariffe del 145 per cento e le contro tariffe di Pechino del 125 per cento. Il traffico da e verso la Cina è crollato. Le navi sono ferme nei porti. L’interdipendenza economica e commerciale tra l’America e il Celeste impero è stata un’altra sottovalutazione. Sono le stesse Corporate statunitensi ad aver delocalizzato la produzione in Cina per produrre a costi più bassi.

I BENEFICI

La classe media statunitense ne ha beneficiato. E la merce che parte da Pechino è spesso americana e non cinese. L’esempio più eclatante è quello degli I-Phone, prima sottoposti ai dazi e poi quasi subito esclusi. Ci si è resi conto che il loro prezzo sarebbe più che raddoppiato da 1.200 a 2.400 dollari. Ma ci si è resi conto anche di un’altra cosa. Che riportare in America l’assemblaggio dell’iconico telefonino non è possibile. Non è solo una questione di costi, è anche una questione di manodopera specializzata che ormai negli Stati Uniti scarseggia. I 30 milioni di telefonini che Apple vende in America non saranno più prodotti in Cina, ma in India. Non era questo l’esito sperato da Trump. Così come non più tardi di ieri ha dovuto fare un’altra mezza marcia indietro sulle auto. Le tariffe saranno allentate per fare in modo che il sovrapprezzo del 25 per cento non si sommi con i dazi di alluminio e acciaio e soprattutto che le auto assemblate negli Stati Uniti con pezzi prodotti all’estero non siano penalizzate. Come ha ammesso il segretario al Commercio, Howard Lutnick, i produttori hanno fatto notare che sarebbero stati costretti a bloccare assunzioni e investimenti negli Usa. Un altro autogol. Questa girandola di decisioni e ritracciamenti è da mal di testa. La domanda è se dietro il caos ci sia un progetto che, almeno per adesso, sfugge alla comprensione. Steve Bessent, il segretario al Tesoro Usa, ha definito questa fase di «incertezza strategica». Ma l’incertezza è, si potrebbe dire, certa. La strategia resta oscura.

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