21.05.2025
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Politics

La Ue riscriverà la lista degli Stati non a rischio. Potrebbe esserci la Siria


BRUXELLES Una lista unica Ue per definire i Paesi di origine sicuri arriverà solo nel 2026, sempre che i governi non decidano di fare più in fretta. Ad oggi, la normativa europea dà una definizione comune a tutti in una direttiva del 2013 (è ritenuto sicuro lo Stato per cui «si può dimostrare che non vi è generalmente e costantemente persecuzione, né tortura o trattamenti disumani o degradanti, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale»), ma lascia poi ad ogni singolo Paese membro la possibilità di sviluppare in concreto le proprie liste. È il motivo per cui l’Italia ha un elenco che designa 22 Paesi come sicuri (è stato aggiornato a maggio con l’aggiunta di Bangladesh, Egitto, Sri Lanka, Camerun, Colombia e Perù accanto — tra gli altri — agli Stati dei Balcani, Tunisia, Algeria, Ghana, Gambia e Senegal), mentre la Francia solo 13 (nessun africano) e la Germania appena 10. Insomma, per il momento non esiste un unico elenco Ue dei Paesi sicuri, ma i tecnici Ue a Bruxelles e nella maltese Valletta (dove ha sede l’Agenzia Ue per l’asilo, Euaa) sono al lavoro per mettere a punto uno strumento comune considerato «essenziale a sostegno del rapido esame di domande probabilmente infondate», introdotto dalla riforma del Patto migrazione e asilo. Viene visto come un modo per superare «alcune divergenze tra le liste nazionali». Alcune, non tutte.

Questo perché, anche in futuro, ai 27 governi Ue si darà comunque la possibilità di definire i propri elenchi nazionali e di ampliare la selezione Ue aggiungendo ulteriori Paesi. Il Patto è entrato in vigore quattro mesi fa, ma la sua disciplina è appunto “sospesa” per altri due anni: vari Stati, tuttavia, vorrebbero un anticipo dell’attuazione di alcune disposizioni. La formula è finita ora al centro della contesa italiana, fino a portare all’annullamento del decreto di detenzione delle 12 persone migranti a Shëngjin. Questo perché la provenienza da un Paese sicuro costituisce uno dei prerequisiti per seguire la procedura accelerata di frontiera, applicata nel centro albanese. Nonostante l’inserimento nell’elenco italiano, né Egitto né Bangladesh (Stati di provenienza dei 12), ha argomentato il tribunale romano, possono essere considerati sicuri poiché non lo sono nella loro interezza. Il riferimento, in questo caso, è a una pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia dell’Ue, datata 4 ottobre, che ha chiarito come «il diritto dell’Ue impedisce che uno Stato designi un Paese di origine sicuro soltanto per una parte del suo territorio». I giudici Ue hanno fondato la loro sentenza sulla vecchia direttiva del 2013. Precedente, cioè, alla riforma del Patto, la quale sul punto introduce un principio nuovo che, quando in vigore, supererà l’interpretazione appena offerta della Corte.

Uno dei regolamenti, infatti, stabilisce che la designazione di un Paese sicuro «può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili».

LA SIRIA
Se fino al 2026 si seguono le precedenti regole, a livello politico cresce, tuttavia, il pressing per ampliare il novero dei Paesi ritenuti sicuri: il più attivo, in questi giorni, è stato il cancelliere austriaco uscente Karl Nehammer (il cui partito popolare di centrodestra è stato superato nelle elezioni di fine settembre dall’ultradestra), secondo cui «la Siria è considerata come sicura in molte sue aeree», prova ne siano — è la tesi — i ritorni volontari dei rifugiati siriani presenti in Libano, così come la partenza verso lo Stato confinante di cittadini libanesi a seguito dell’inizio dell’invasione israeliana. Una situazione da cui pure l’Ue dovrebbe trarre le conseguenze, è la linea di Vienna, condivisa dai Paesi mediterranei che temono un afflusso di richiedenti asilo per l’escalation mediorientale. Perché diventi operativa, tuttavia, richiede a Bruxelles la riapertura di canali diplomatici con il regime del dittatore Bashar al-Assad, con cui l’Ue interruppe i rapporti nel 2012. D’accordo pure la Germania che, dopo l’attentato di Solingen e la rimonta elettorale dell’estrema destra, ha sposato la linea dura (bipartisan) nella gestione dei flussi migratori, quasi dieci anni dopo le porte che, invece, Angela Merkel aprì ai rifugiati siriani. Il tema è ora al centro del confronto politico, con il leader cristiano-democratico Friedrich Merz a esortare il governo a fermare l’accoglienza di siriani e afghani. E a tirare dritto con i rimpatri verso Kabul, nell’Afghanistan dei talebani. Anche in questo caso, come per la Siria, si tratta di uno Stato-paria con cui l’Europa ha sospeso le relazioni. Ma verso cui, per la prima volta e in nome del pugno duro sui rimpatri, il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha trasferito 28 afghani condannati in Germania per crimini gravi e detenuti nelle carceri di diversi Länder.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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