La partita iniziata alle elezioni dell’8 e 9 giugno si sposta ora sul tavolo delle trattative per la distribuzione delle cariche ai vertici della Commissione, del Parlamento e del Consiglio Europeo. Sono già usciti i nomi dei quattro candidati che potrebbero sedersi alle poltrone dei tob jobs, ricoprendo i vertici delle istituzioni europee: sono Ursula von der Leyen alla Commissione, Antonio Costa (ex premier portoghese) al Consiglio europeo, Kaja Kallas (primo ministro dell’Estonia) come Alto rappresentante e la maltese Roberto Metsola al Parlamento. Nemmeno un italiano.
Meloni e le nomine Ue: voto a Ursula, ma solo se c’è un cambio di passo
All’Italia, per Meloni, spetta un posto in prima fila. Il Belpaese ha diritto, come tutti gli altri Stati membri, a uno dei 26 commissari che compongono, con il o la presidente, l’esecutivo Ue. Così, per avere un peso decisivo almeno in questo campo, Giorgia Meloni tira fuori tre carte: il voto di Ecr, il peso del governo italiano sul Consiglio Ue e il via libera al Mes.
Il via libera al Mes
Dopo essere stata esclusa al vertce di Bruxelles sulle nomine, Meloni ripesca il Mes: «Niente ratifica». E già questo sa tanto di ripicca. Conosciuto anche con il nome di Fondo salva-Stati, il Mes è un’istituzione governativa dotata di un capitale di circa 700 miliardi di euro che entra in funzione per sostenere i paesi membri in difficoltà economica, ma con alcune condizioni. Condizioni non accettate dalla maggioranza, che ha osteggiato la riforma. Così l’Italia è stato l’unico Paese dell’eurozona a non aver ratificato il Mes. A sei mesi dopo la bocciatura alla Camera e archiviate le elezioni, gli altri 19 ministri dell’area euro sono tornati a chiedere al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti come l’Italia intenda procedere alla ratifica della riforma. «Ho detto semplicemente che introdurre il tema della ratifica del Mes in questo momento — ha detto il ministro — mi sembrava un po’ diciamo così, vagamente buttare un po’ di sale sulla ferita e quindi improprio». Il ministro ha risposto così all’uscita dal consiglio Ecofin. Salvo poi aggiungere che, alla base del (nuovo) ‘no’ italiano c’è anche un’altra motivazione: il trattamento che i principali leader Ue hanno riservato a Meloni nel corso del summit. Più che economica, dunque, la questione è politica.
Uno tra i partiti più forti in Ue
Altra carta giocata da Meloni: la forza del suo partito, che è tra i pochi ad essere uscito rafforzata dal voto, portandosi a casa un 29 per cento. «risultato clamoroso». «Mi pare che da quello che si vede dai risultati i partiti di governo in una congiuntura così complessa sul piano internazionale soffrono — aggiunge — l’Italia va in controtendenza. FdI cresce, tutti i partiti di maggioranza sono cresciuti, ed è chiaramente un risultato che dà anche grande centralità alla nostra nazione, perché tra i grandi Paesi europei, l’Italia ha il governo che esce più rafforzato».
Ecr
Poi, il tema Ecr, ovvero il partito europeo dei conservatori e riformisti, guidato appunto dalla premier italiana, che è uscito rafforzato dalle elezioni e vuole contare di più negli equilibri di potere. Negli scorsi giorni Ecr ha raggiunto gli 83 membri e si attesta come terzo gruppo all’Eurocamera, superando il partito dei Renew, sostenuto da Macron. Si tratta di un dato politico rilevante che sposta gli equilibri dell’Europarlamento verso destra e rende ancor più difficile escludere i conservatori dalle scelte inerenti le principali caselle delle istituzioni europee. Ragion per cui, Meloni dopo aver dato panzerotti e mozzarelle ai leader nel al G7, rivendica un ruolo di massimo rango per l’Italia.
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