15.05.2025
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Technology

«Il tocco magnetico che trasforma le mani robotiche»


Daniel è rimasto vittima di un incidente e ha perso una mano. Due anni dopo è stato il primo paziente amputato al mondo a cui è stata impiantata una protesi a controllo magnetico, che riesce a riprodurre i movimenti pensati dal cervello, e quindi a dosare la forza per afferrare oggetti. La protesi robotica è stata sviluppata da uno centro di eccellenza italiano, l’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che ha realizzato un sistema di interfaccia del tutto nuovo, già sperimentato con successo su un paziente per sei settimane. L’idea, sviluppata all’interno del progetto Myki, finanziato dalla Commissione Europea è quella di usare dei piccoli magneti, delle dimensioni di qualche millimetro, da impiantare nei muscoli residui del braccio amputato e usare il movimento della contrazione per aprire e chiudere le dita. Ne abbiamo parlato con il professor Christian Cipriani, che ha integrato la mano robotica Mia-Hand, sviluppata dalla spin-off Prensilia, con la nuova interfaccia a controllo magnetico.

Ad oggi, quali sono le tecnologie più diffuse di protesi agli arti?

«Sono le protesi mioelettriche, si tratta di mani che si muovono in risposta a contrazioni muscolari, il cui segnale derivato è letto attraverso sensori posizionati sulla pelle, sopra i muscoli residui, ed utilizzato per aprire e chiudere la mano. Il grande limite è che fino a questo momento non risulta possibile differenziare i movimenti di dita differenti, in quanto i segnali elettrici registrati sono tutti molto simili tra loro».

Da quale spunto siete partiti per sviluppare la vostra mano?

«Nel 2012 stavo conducendo un periodo di ricerca in Colorado, negli Stati Uniti, dove lavoravo con elettrodi muscolari ad ago da inserire per «raccogliere» il segnale interno dei muscoli, al fine di poter controllare le protesi di mano. Con tutta evidenza, quando i muscoli contraevano, gli aghi si muovevano. Sebbene fosse ovvio, vederlo mi ha acceso una lampadina: provare a misurare lo spostamento fisico dei muscoli, che si poteva realizzare utilizzando dei magneti».

Quale l’innovazione più importante rispetto alle protesi attuali?

«L’innovazione principale risiede nel controllo della protesi. L’abbiamo definito controllo miocinetico, ovvero la decodifica delle intenzioni motorie attraverso magneti che vengono impiantati nei muscoli. Ci sono 20 muscoli nell’avambraccio e molti di questi controllano la mano. Molte persone che perdono una mano continuano a sentirla come se fosse ancora al suo posto e i muscoli residui si muovono in risposta al comando che arriva dal cervello. Il team di ricerca ha mappato i movimenti e li ha tradotti in segnali per controllare le dita della mano robotica. I magneti, infatti, sono dotati di un naturale campo magnetico che può essere tracciato nello spazio. L’idea del progetto è mappare questi movimenti e tradurli in segnali per guidare le dita robotiche».

In che modo la mano robotica riesce ad interpretare il pensiero del movimento che parte dal cervello?

«Il paziente ha ricevuto l’impianto di sei magneti nei muscoli residui dell’avambraccio con un intervento realizzato presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Pisa. Quando il muscolo si contrae, il magnete si muove e attraverso un algoritmo di localizzazione che si basa su dei sensori magnetici posizionati all’interno dell’invasatura protesica, è possibile riconoscere il grado di contrazione dei muscoli, tradurre i movimenti in segnali e usarli per muovere le dita della mano robotica».

Come può non esserci nessuna connessione elettrica? E la forza come viene dosata?

«La mancanza di connessioni elettriche si riferisce al sistema di controllo. Non rileviamo attraverso elettrodi i segnali elettrici associati alla contrazione muscolare, ma rileviamo il campo magnetico prodotto dai magneti impiantati attraverso sensori magnetici. E per far questo non servono né collegamenti elettrici per “accendere” i magneti, né per rilevarne il campo. Più il muscolo si contrae, più i magneti si muovono. Questa informazione è mappata proporzionalmente sulla forza di presa della mano robotica che è stata sviluppata da Prensilia, spin-off della Scuola Sant’Anna. Dunque, più contrae, più la mano stringe».

La mano restituisce anche esperienza sensoriale-tattile?

«Sì, anche se l’esperienza sensoriale-tattile è oggetto di un altro studio che siamo in procinto di sottoporre a pubblicazione scientifica. In questo studio pubblicato, il focus è sulla parte di controllo tra la protesi e il braccio residuo dell’amputato».

Com’è andata la sperimentazione con Daniel, il paziente?

«I risultati della sperimentazione hanno rispettato le nostre previsioni. Daniel che ha 34 anni, ha perso la mano sinistra nel 2022 ed é stato scelto come volontario dello studio perché sentiva ancora la presenza della mano e i muscoli residui del suo braccio rispondevano alle intenzioni di movimento. Infatti è riuscito a controllare i movimenti delle dita, ha raccolto e spostato oggetti di forme diverse. E’ riuscito a compiere alcune classiche azioni quotidiane come aprire un barattolo, usare un cacciavite, tagliare con un coltello, chiudere una zip ed è stato in grado di controllare la forza, quando ha dovuto afferrare oggetti fragili».

La stessa tecnologia potrebbe essere applicata anche al piede?

«Stiamo lavorando su due fronti: il primo è rendere permanente l’impianto, il secondo è quello di estendere l’impianto anche a casistiche diverse di amputazioni, tra cui anche quelle di arto inferiore».

La protesi sarà disponibile per altri pazienti in futuro?

«Stiamo lavorando alacremente e col contributo del Ministero della Ricerca e dell’INAIL in grandi progetti nazionali per compiere tutti quei passi necessari a una possibile commercializzazione del sistema. Contiamo nel medio periodo di riuscirci. Ovviamente, la strada è lunga ma siamo molto determinati».

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