Anche i robot nel loro piccolo si ammazzano.
La recente notizia del «suicidio» di un robot impiegato presso il consiglio comunale di Gumi, in Corea del Sud, è un evento che al netto delle facili ironie induce a una serie di riflessioni. Anche oltre la tara di quanto sia stata romanzata la notizia. Perché se pure la notizia fosse falsa o semi-fake, il tema ci è utile come spunto e pretesto per approfondire un argomento che sarà sempre più attuale: vale a dire il rapporto fra intelligenza artificiale e coscienza. Ma proviamo a partire dal contesto, ovvero da quel che sappiamo e che ci è stato raccontato dell’accaduto, non un comune incidente di manutenzione o un guasto tecnico, ma la storia di un robot che, secondo i rapporti, ha scelto di suicidarsi gettandosi giù da una scala. Un’immagine tragicomica, se vogliamo, di un automa stanco del suo lavoro burocratico. Una sorta di Cyber-Fantozzi. E sì che il robot in questione, prodotto dalla Bear Robotics, era un impiegato modello: lavorava dalle 9 alle 18, aveva una tessera da funzionario civile e poteva perfino utilizzare l’ascensore per muoversi tra i piani. In un Paese come la Corea del Sud, che vanta il più alto tasso di densità robotica al mondo con un robot industriale ogni dieci dipendenti, questo evento appare una cosa a metà fra una tragedia e una parodia della dipendenza dalla tecnologia e dell’inevitabile stress lavorativo che ne deriva. La scena di un robot che si lancia giù per le scale è degna di un episodio di una serie distopica, e forse è proprio questo l’aspetto più inquietante: il robot, una creatura di silicio e circuiti, ha mostrato segni di esaurimento lavorativo, come un impiegato qualsiasi. Se i robot, progettati per essere macchine infallibili e instancabili, iniziano a «ribellarsi» o a crollare sotto il peso del lavoro, che segnale ci arriva rispetto al nostro rapporto con l’intelligenza artificiale? Quanto impiegheranno davvero le macchine a sviluppare una propria coscienza? È uno dei grandi dilemmi che sta alla base dell’IA. La tecnologia, che doveva liberarci dalle fatiche e migliorare la nostra qualità della vita, potrebbe persino aver creato nuove forme di oppressione. Gli impiegati umani, già soggetti a stress e burn-out, ora devono fare i conti con l’idea che anche le macchine possano soffrire di sovraccarico. In fondo l’idea che la nostra società nel suo rapporto con la tecnologia abbia perso il senso del limite è molto concreta, a prescindere che questa corsa forsennata nella ruota del criceto sia incarnata dalle macchine o dall’uomo. Nel frattempo, il consiglio comunale di Gumi per il momento ha deciso di non pianificare l’adozione di un secondo robot ufficiale. Un segnale che forse anche i burocrati umani stanno iniziando a riconoscere i limiti della tecnologia? O una semplice misura cautelativa in attesa di individuare un robot che abbia scritto “Stakanov” nel curriculum? Ma ironia a parte, è forse arrivato il momento di prendere atto che in un mondo che si affida sempre di più all’automazione, è essenziale ricordare che il benessere, la sostenibilità e l’equilibrio non possono essere sacrificati sull’altare della produttività a ogni costo. Perché se iniziano a crollare le macchine, il cui impiego è immaginato (anche e non solo) per alleviare la fatica dell’uomo, allora potremmo avere un problema molto serio. Un recente studio di Goldman Sachs citato dal Financial Times dal titolo “The Potentially Large Effects of Artificial Intelligence on Economic Growth” arriva a sostenere che la capacità di generare contenuti in modo automizzato nei prossimi 10 anni, potrebbe travolgere il mondo del lavoro mettendo a rischio oltre 300 milioni di posti. Certo se poi le macchine dimostreranno di avere la stessa resistenza del robot di Gumi, magari il rischio sarà leggermente edulcorato. Ma sullo sfondo l’episodio coreano resta il simbolo di una società che deve rivedere le proprie priorità e riscoprire il valore della moderazione e dell’umanità, anche nell’era della tecnologia avanzata.
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