Serve una fabbrica dei giovani che sognano per colorare di nuovo d’azzurro i cieli del calcio. Ne sa qualcosa Fabrizio Corsi, il veterano dei presidenti di Serie A, nel solco di una famiglia di imprenditori della pelle e l’alta moda. Compirà 64 anni il prossimo 22 agosto, dall’inizio degli ‘80 nel Cda dell’Empoli per poi assumerne la presidenza nel 1991, neanche trentunenne, muovendosi tra 14 campionati di A e altrettanti di B, fino a lanciare la figlia Rebecca oggi vicepresidente e amministratore delegato del club. Prese Luciano Spalletti da giocatore e l’ha fatto diventare allenatore. Ma soprattutto sotto la sua gestione sono diventati uomini prima che calciatori i vari Maccarone, Tavano, Marchisio, Giovinco, Di Francesco, Toni, Borriello, Di Natale, Montella, Saponara, Spinazzola, Caputo, fino agli ultimi Dimarco, Di Lorenzo, Verdi, Soriano, Traoré, Skorupski, Farias, Dragowski, Viti, Ricci e Asllani.
L’eliminazione dell’Italia ha aperto le riflessioni: da dove e come ripartire?
«Trovare gli strumenti per far giocare più italiani. Se guardiamo a livello internazionale in 2-3 anni i nostri giovani si sono dimostrati all’altezza e le Nazionali giovanili vincono, però negli altri campionati giocano molto di più. A Empoli facciamo il nostro dovere, consapevoli di poter fare meglio. Bisogna dare più spazio ai ragazzi italiani: ci può essere qualche rischio, ma in fondo è calcolato. Non abbiamo i Bellingham, però qualche buon elemento in circolazione c’è. In alcune realtà come Lecce, Frosinone e la nostra si è valorizzato. Il calcio di provincia fa qualcosa di più».
Cosa le ha lasciato la disavventura della Nazionale?
«Un grande dispiacere. Tutti gli sportivi italiani sono rimasti delusi, io lo sono ancora di più a livello personale. Penso a Spalletti e allo staff, con Daniele Baldini e Alessandro Pane che sono stati da noi e mi hanno fatto del bene. All’inizio ho pensato che avessimo un ritardo di condizione e credevo che si potesse crescere. Immaginavo che si partisse piano per trovare la migliore condizione fisica nella fase cruciale, com’è successo più volte in passato. Non mi sento di dare giudizi né d’interpretare questa delusione».
Da Empoli sono passati tantissimi giovani, li avete cresciuti in casa e valorizzati: in chiave azzurra andrebbe percorsa questa stessa strada?
«Non credo che si possa rapportare la nostra esperienza o le esigenze che sono valorizzare e proporre giocatori perché l’Empoli è una società sostenibile a oggi riuscirci risulta sempre più difficile. Prendiamo giocatori anche sconosciuti dalle giovanili e li lanciamo. Si parte dalle necessità, abbiamo certe risorse interne e poche altre. I numeri parlano, se si guardano gli incassi e le spese degli altri. La lungimiranza viene dall’esperienza in un ambiente che ha la vocazione di sostenere i giovani, condividendo e accompagnandoci anche nelle situazioni più complicate. Teniamo duro aspettando i nostri giovani alla prova dell’esordio senza temere. Il problema è tutto il calcio, Prandelli ha spiegato, da noi si fanno giocare poco i giovani, soprattutto italiani. Io posso esprimere la mia opinione, al presidente Gravina l’ho espressa una ventina di giorni fa e mi ha fatto presente le difficoltà. Il governo ha abolito il decreto crescita che favoriva il calciatore straniero: ho votato con gli altri ma resto contrario ad acquisire giocatori stranieri a condizioni agevolate. Così gli italiani non partivano alla pari. In Europa la Spagna da 15 anni esprime più valori sul piano tecnico, del talento e dei risultati: lì gioca solo il 35 per cento di stranieri. I nostri numeri sono diametralmente opposti e ci indicano che si dovrebbe fare diversamente. Si sono persi cultura, passione e coraggio».
Cosa pensa delle seconde squadre?
«Non ho le risorse per fare la seconda squadra, mi mancano gli strumenti. Bisogna vedere i risultati che porta. La Juve qualcosa di buono ha tirato fuori sul piano della maturazione. Ma non so valutare nel medio termine».
Di giovani ne ha avuti davvero tanti: a chi è legato di più o pensa di aver avuto l’occhio più lungo di altri?
«Quanti ne ho visti e quasi con tutti ho un rapporto bellissimo. Quando sono piccoli non si possono battezzare, poi si cresce e si vede. Penso al talento di Montella e Di Natale, fino agli ultimi Ricci e Asllani. Non li guardo da solo, certe idee si condividono con gli allenatori e con tutto il gruppo di lavoro del settore giovanile».
Lei ha cominciato da presidente prendendo Luciano Spalletti nel 1991 come giocatore (in 2 anni 60 presenze) e aprendogli la carriera di allenatore (dal 1993 al ’98) con le giovanili e poi con la salvezza in C1 ai playout da subentrato, la promozione in B e quella in A con la permanenza ottenuta a una giornata dalla fine prima di trasferirsi alla Sampdoria. Lo conosce benissimo: cosa gli è mancato?
«Penso che siano mancate vivacità fisica, aggressività e determinazione. Gli è mancato anche il tempo. Lo vedo come uno che ha una conoscenza approfondita e più tempo gli sarebbe servito per mettere a disposizione il bagaglio. Come allenatore di club ha fatto grandi risultati, noi gli siamo molto riconoscenti per quello che ci ha dato. Nel suo staff c’è chi è stato con noi, principalmente mi dispiace per loro. Per uno sportivo empolese la delusione è più grossa per quanto rappresentano. Per noi sono famiglia».
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