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«I rimpatri si fanno da Libia e Tunisia. Non temo nuove ondate»


Ministro Matteo Piantedosi, lei nei giorni scorsi è stato nuovamente in Libia con Giorgia Meloni. Tripoli batte cassa e sostiene di essere sul punto di esplodere, con quasi 3 milioni di migranti sul suo territorio. Bisogna aspettarsi una nuova ondata di arrivi?
«Personalmente non credo aumenteranno. Quel messaggio lanciato dal governo libico, con cui lavoriamo molto bene, certifica in realtà solo ciò che già sappiamo e su cui abbiamo costruito le nostre partnership con i Paesi nordafricani: a dispetto di quanto pensato finora il nostro problema migratorio non è contrapposto a quello che loro affrontano. La Libia, come pure la Tunisia, vivono una situazione assolutamente paragonabile alle nostre peggiori stagioni, con trafficanti che agiscono sul loro territorio, favorendo il transito di persone con numeri insostenibili e generando problemi di stazionamento. Proprio per questo da tempo abbiamo mirato la nostra collaborazione non più sul solo contenimento delle partenze, con la fornitura di formazione e di dotazioni sulla terra ferma o per i recuperi in mare, ma soprattutto sui rimpatri volontari assistiti».

Da qualche mese c’è una cabina di regia al Viminale e un inviato che proprio in queste ore si muove tra Libia e Tunisia, ma di che si tratta in concreto?
«In accordo con gli organismi internazionali come Oim e Unhcr, che lavorano gomito a gomito in Libia, abbiamo creato delle triangolazioni con i Paesi di partenza. Cioè proponiamo già in Libia o in Tunisia delle alternative a progetti migratori, a volte anche avventurosi e pericolosi, riportando i migranti nei Paesi di origine e aiutandoli a reinserirsi grazie a consulenze ad personam, assistenza logistica e finanziaria. Nei primi sei mesi del 2024 sono stati quasi 8mila: 5111 in Libia e 3800 in Tunisia. I cali degli sbarchi degli ultimi mesi li ascrivo più a questo cambio di approccio che ai recuperi di persone in mare o alle azioni di contrasto di partenze che pure mettiamo in campo. Sono convinto che questo sia il vero salto di qualità, per di più con modalità che trovo più rispettose per i migranti coinvolti in questi traffici di esseri umani».

Assieme a Meloni è stato oggetto di un duro attacco da parte dell’organizzazione non governativa Sea-Watch, che le augurato «tutto il peggio». Vuole rispondere?
«Preferisco di no sia per mia cultura personale che per il rispetto del ruolo istituzionale che ricopro, mi consenta solo di dire che toni di questo tipo qualificano chi li esprime».

A Bruxelles si comincia ora a trattare sul serio per le deleghe dei nuovi Commissari. All’Italia potrebbe toccare quella al Mediterraneo, con un raggio d’azione ampio su investimenti, stabilità economica, energia, sicurezza e migrazione. Che ne pensa?
«La premier Giorgia Meloni sta tutelando gli interessi del nostro Paese, a prescindere da quale incarico otterremo alla fine. Detto ciò ritengo che il ruolo del Commissario per il Mediterraneo sia innovativo e importante. Affidarlo a noi, con risorse a disposizione e un raggio d’azione ampio, sarebbe quindi anche un riconoscimento del nostro ruolo nell’area e di quanto il nostro Governo sta già facendo tra partnership con il Nordafrica e Piano Mattei. D’altro canto, anche se la casella non finisse con l’essere occupata dall’Italia che ricordo essere un Paese fondatore dell’Ue, sono certo avremo un’assoluta centralità, per il semplice fatto che del Mediterraneo noi siamo il baricentro».

Però sul fronte Sud l’Italia ha già “perso” l’incarico di inviato della Nato, assegnato a sorpresa alla Spagna dall’uscente Stoltenberg.
«Mi limito a estendere la riflessione precedente: a prescindere dalle poltrone in quest’area l’Italia è destinata inevitabilmente ad avere un ruolo fondamentale».

Venerdì per qualche ora il mondo si è paralizzato a causa di un tilt informatico che se ha infine creato “solo” disagi per i cittadini pareva poter mettere a rischio le nostre infrastrutture strategiche digitali. È stata un po’ una prova generale dei tanti timori sollevati nei mesi passati? L’Italia sarebbe in grado di rispondere ad attacchi su vasta scala?
«Premesso che ora tutti i tecnici a livello globale faranno le loro valutazioni per chiarire nel dettaglio ciò che è successo, vorrei lanciare un messaggio tranquillizzante dal punto di vista della sicurezza cyber. Noi, come Viminale, con la Polizia Postale e il Cnaipic siamo stati vicini alle aziende e alle infrastrutture critiche per evitare eventuali eccessive ricadute. Il sistema Paese ha mostrato tutti i progressi a cui abbiamo lavorato negli ultimi anni rafforzando il perimetro di sicurezza cibernetica, l’agenzia nazionale per la Cyber e il provvedimento sulla sicurezza digitale. Detto tutto ciò a me pare che viviamo in un’epoca in cui abbiamo grandi discussioni su futuri distopici, macchine intelligenti o effetti avversi dell’Ai, ma poi ci rendiamo conto che basta un aggiornamento di un software fatto male, anche solo per un errore umano, e precipitiamo nel caos. Questo ci dice che l’affermazione della digitalizzazione all’interno di tutte le articolazioni della nostra vita è talmente profonda che il vero tema in questo momento non è cosa ne sarà con l’Ai, ma se non serva intervenire sull’eccessiva interconnessione che domina le nostre vite. L’episodio di ieri (venerdì ndr) ci dimostra che basta poco affinché vi sia un riverbero di errori».

Sta dicendo che abbiamo infrastrutture digitali troppo interconnesse? Sarebbe il caso di valutare un sovranismo digitale?
«No. Ma affinché ogni situazione critica diventi un’opportunità mi limito a proporre di aprire una riflessione su quanto sia presente la tecnologia nella nostra vita e quanto questo possa finire con il rivelarsi drammatico in caso di errori ma anche in caso di attacchi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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