17.06.2025
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Politics

«I ragazzi vanno coinvolti o si sentono irrilevanti. Votano se possono incidere»


Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, cosa emerge dal “Rapporto giovani”, di cui lei è uno dei curatori?

«La premessa è che sui giovani si sono creati luoghi comuni e stereotipi che non sono in linea con quello che i giovani desiderano e vogliono davvero. Semplicemente li ascoltiamo poco e li lasciamo ai margini. Sono diversi rispetto al passato magari, ma c’è poca capacità di capire come questa differenza possa essere valorizzata, anche nella politica e nel dibattito pubblico. A partire da ciò che li preoccupa».

Ad esempio?

«Da un lato c’è la preoccupazione per il loro percorso formativo. Chi arriva da realtà più fragili non vede nella scuola un luogo di riscatto. L’altra preoccupazione è legata al mondo del lavoro, complice l’ingresso tardivo, che ha ricadute sull’indipendenza e, da ultimo, sul tema “casa”. I giovani, però, vogliono poter andare oltre queste difficoltà da cui si sentono schiacciati e potersi occupare del mondo che cambia, portando le loro competenze. Se c’è una cosa che non è diminuita è la voglia di contare al centro di un progetto collettivo. Tutto questo è messo a rischio dall’evidenza che sono numericamente inferiori rispetto ad altre fasce della popolazione. Tant’è che sta aumentando sempre più il peso elettorale della popolazione più anziana sulle decisioni collettive».

Su questo punto incide anche la scarsa rappresentanza dei giovani tra gli eletti. Dal 2018 al 2022 il numero di eletti under 35 è calato drasticamente. Servirebbero “quote giovani” nella politica, oltre che quote rosa?

«La questione della rappresentanza va posta, poi la soluzione si può trovare. Anche perché nel frattempo la demografia alleggerisce il peso di chi, in futuro, porterà il peso delle decisioni prese oggi. Le grandi democrazie moderne sono nate quando il peso delle nuove generazioni era preponderante. Ora, invece, rischiano di diventare irrilevanti. Se non si da una risposta, i giovani andranno altrove, dove possano costruire il futuro che desiderano e dove il loro peso elettorale possa contare. Non è un caso che molti di loro si spostino proprio verso i paesi dove i giovani sono di più».

Il rapporto dimostra che per la maggior parte degli intervistati andare a votare non è un valore in sé ma dipende dalla rilevanza attribuita alla consultazione specifica. Va letto come l’ennesimo campanello d’allarme?

«Per la classe dirigente di oggi, che si è formata nei decenni successivi alla guerra, il voto ha un valore in sé, indipendentemente da chi si voti. Questo non può essere vero per le nuove, nonostante implicitamente si continui a pensarlo. Il giovane va a votare se può fare la differenza, non lo fa se diventa un rito vuoto che non produce conseguenze».

C’è però qualche differenza. Tra loro, donne e laureati in media ritengono comunque che sia importante recarsi alle urne

«Qui giocano le risorse culturali, e non solo. Si tratta di due segmenti che hanno più voglia di costruire un futuro diverso e di portare la propria visione nella realtà. Un’altra parte dei giovani, invece, si sente impotente. Non tanto perché non si ritenga la politica importante in sé, ma perché l’offerta politica, tornata dopo tornata, si è mostrata completamente inadeguata o non interessata a migliorare le condizioni dei giovani producendo nelle fasce medio-basse una condizione di disaffezione».

Questo si collega anche ai livelli di fiducia per le istituzioni, minimi per i partiti e superiori per Comuni e Regioni?

«È la dimostrazione che se la politica si avvicina — con un riscontro più evidente di quanto proposto — anche i giovani si avvicinano».

Se ambiente e lavoro sono tra i temi più importanti per le nuove generazioni, all’ultimo posto si collocano, invece, le guerre e i conflitti internazionali. Come se lo spiega?

«I giovani sono interessati agli aspetti positivi su cui possono incidere. Le sfide ambientali sono un tema del ventunesimo secolo, così come i rapporti di genere o i diritti civili. I conflitti, al contrario, sono un’eredità del ventesimo, che la che classe politica genera perché ancora ragiona in quel modo lì, senza essere in grado di risolverle».

Se potesse dare un solo consiglio ai politici, per invertire la rotta, cosa suggerirebbe?

«La classe dirigente deve dare ai giovani il messaggio che in Italia il futuro si costruisce con loro, e loro idee e azioni possono contare nell’imprimere una direzione nuova al sistema-Paese. I giovani si sentono al loro posto, se sentono che quel posto può cambiare con loro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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