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«I genitori di oggi sono rimasti immaturi, incapaci di aiutare i figli a gestire il fallimento»


«Questo fenomeno, che è in aumento già da diversi anni, avviene perché è fallito ormai il patto educativo tra le generazioni. Prima un insegnante era visto come una figura di riferimento in continuità con la famiglia. Ora il suo ruolo è messo in discussione, così come quello della scuola. Ma il problema non sono gli adolescenti: sono gli adulti che non riescono a svolgere il loro ruolo educativo. Quelli che si possono definire «adultescenti»». Narciso Mostarda, neuropsichiatra infantile, direttore generale del 118 e già direttore del San Camillo di Roma, al tema dell’adultescenza ha dedicato un intero libro: «La società adolescente. Padri e figli al tempo dell’identità smarrita», pubblicato da Rubbettino editore. Ora che crescono i ricorsi dei genitori sulle pagelle negative, spiega cosa succede.
Professore, come si spiega questo fenomeno?
«Il problema nasce dal fatto che gli adulti di oggi, cioè i genitori che erano adolescenti 30-40 anni fa, sono rimasti immaturi. Quindi i ragazzi di oggi hanno a che fare con figure che non sono in grado di gestire i processi relazionali in maniera responsabile. Non sempre sono, quindi, adulti adeguati. Parliamo di uomini e donne rimasti adolescenti, e che a loro volta non aiutano i loro figli a diventare maturi. Anzi, si continua a scaricare sui giovani le responsabilità di errori commossi dalle generazioni precedenti».

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Cosa dovrebbero fare, invece, le famiglie, davanti ad un risultato non soddisfacente dei propri figli?
«È un errore fare i sindacalisti dei propri figli davanti ad una insufficienza, perché vuol dire dimostrare di essere incapaci di aiutarli a gestire il fallimento. Mentre la crescita dei giovani passa anche dai giudizi negativi e dal superamento delle difficoltà. Davanti ad un insuccesso, quindi, i genitori dovrebbero sostenere i propri figli, fargli capire che sbagliare è naturale e che esistono altre strade per superare gli errori. Strade che si possono percorrere con l’aiuto e il supporto anche di altre figure di riferimento come, appunto, i docenti, i fratelli maggiori. Se semplifichiamo i processi con comportamenti muscolari, rischiamo di indurre comportamenti aggressivi e violenti. E, soprattutto, non aiutiamo veramente i nostri figli a superare un momento difficile».
Gli adolescenti, quindi, sono in qualche modo vittime di questa tendenza?
«Certamente il problema non sono loro, anzi. I ragazzi di oggi sono sempre più soli, per questo io non parlo di generazione Z ma di generazione S, come smartphone, social, sexting e, appunto, solitudine. Se non accompagniamo i nostri figli standogli accanto, ascoltandoli e, allo stesso tempo rendendoli sicuri, avremo prodotto un’altra generazione di adultescenti insicuri. Come quella di oggi. Dobbiamo invece far sì che nei giovani si possano sviluppare gli anticorpi necessari per affrontare le frustrazioni e le delusioni per evitare una immaturità permanente. Se invece li giustifichiamo dando la colpa ai docenti, per esempio, si continua ad alimentare un’insicurezza che rischia di diventare poi persistente».
Da dove cominciare, quindi, per invertire questa tendenza?
«La scuola deve tornare ad essere un luogo aperto, dove possa esserci un dialogo condiviso e sereno tra docenti, studenti e genitori. E i genitori devono ricominciare a riconoscere la competenza educativa dei docenti. È lo stesso fenomeno che, purtroppo, vediamo anche negli ospedali: si scatena la rabbia proprio su quegli operatori che dovrebbero occuparsi della nostra salute. Bisogna ricominciare da qui, da quel patto educativo interrotto».

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