Adam Mosseri, ceo di Instagram, ha rilasciato una serie di dichiarazioni che segnano un ulteriore passo nella costante evoluzione della piattaforma (e che questa volta hanno il retrogusto della piccola rivoluzione): gli hashtag non sono più considerati uno strumento strategico per aumentare la portata dei contenuti; la loro funzione, secondo il ceo, è sempre più circoscritta a classificazione e organizzazione.
Per chi utilizza Instagram come canale di comunicazione – utenti comuni, creator e brand – si tratta di un cambio di paradigma che impone nuove riflessioni e strategie.
I LIMITI
Proviamo a fare un passo indietro. Per anni gli hashtag sono stati considerati uno degli strumenti fondamentali per la visibilità su Instagram. L’idea era semplice: più hashtag coerenti venivano utilizzati, maggiori erano le possibilità che il contenuto raggiungesse nuovi utenti interessati a quel tema. Oggi, però, secondo Mosseri, la funzione primaria degli hashtag è diventata quella di etichettare i post. In altre parole, servono a rendere un contenuto ricercabile in relazione a uno specifico argomento, ma non rappresentano più il fattore determinante per la viralità, per l’amplificazione o per l’espansione della propria audience. Si tratta di un ridimensionamento, per certi versi epocale, che va letto alla luce di un mutamento tecnologico e culturale ben più ampio, e che riguarda sia il funzionamento dell’algoritmo, oggetto di costanti aggiornamenti, sia le abitudini degli utenti. Mosseri ha infatti sottolineato come l’algoritmo di Instagram oggi sfrutti tecniche avanzate di intelligenza artificiale. Che cosa significa questo in parole povere? Significa che oggi l’algoritmo non si limita più a incrociare hashtag e interazioni, ma è in grado di analizzare testi, didascalie, audio e persino elementi visivi grazie al riconoscimento automatico. Questo significa che Instagram è sempre meno dipendente dalle “etichette” inserite dall’utente e sempre più autonomo nel comprendere di che cosa tratta un contenuto. Se vogliamo era nell’aria, ma sentirlo certificare dal numero uno del social trasforma la sensazione in certezza: dal punto di vista della distribuzione, infatti, l’algoritmo privilegia post e reel che dimostrano la capacità di generare coinvolgimento autentico; ed ecco che like, commenti, salvataggi e condivisioni pesano molto più di una lista di hashtag ripetuti.
L’ITER
Il cuore del nuovo approccio sembra chiaro: il valore percepito dai follower e dalle interazioni genuine è ciò che realmente spinge un contenuto. Instagram non premia più la quantità di hashtag, ma la qualità delle relazioni. In questo senso, i comportamenti opportunistici – come inserire hashtag generici e ad alto volume – perdono efficacia e rischiano persino di apparire come forzature agli occhi del pubblico. Che evolve insieme alla piattaforma. Oggi pertanto diventa di fondamentale importanza capire come crescere senza hashtag (o quasi). Alla luce di queste considerazioni, Mosseri suggerisce un insieme di pratiche alternative e più efficaci, quali per esempio creare contenuti coinvolgenti in modo che l’autenticità e l’originalità diventino centrali. Non si tratta solo di “intrattenere”, ma di offrire valore, che si tratti di informazioni, ispirazione o momenti di connessione personale. Un altro suggerimento è quello di sfruttare i reel e i formati video: Instagram continua a puntare molto sui contenuti dinamici e brevi, in linea con la concorrenza di TikTok e YouTube Shorts. I reel, da questo punto di vista, sono il formato che offre la maggiore possibilità di distribuzione organica. E ancora: scrivere didascalie ricche di parole chiave. Questo perché la ricerca interna di Instagram funziona sempre più come un motore semantico. Utilizzare un linguaggio naturale e descrittivo permette infatti all’algoritmo di interpretare meglio il contenuto e proporlo agli utenti interessati. Tutto questo cercando anche di raggiungere un altro obiettivo di grande valore, ovvero quello di stimolare l’interazione: porre domande, invitare alla condivisione di opinioni o creare call to action efficaci può infatti fare davvero la differenza. L’engagement non è più un effetto collaterale, ma un vero obiettivo strategico. Per i creator, questo significa adattare il proprio mindset, non più sulla ricerca della visibilità tramite scorciatoie meccaniche, ma puntando su narrazioni personali, community building e capacità di generare discussione. Per i brand, invece, la sfida sembra farsi duplice: da una parte, produrre contenuti di qualità coerenti con i valori aziendali; dall’altra, accettare l’idea che la crescita organica non si conquista più con la mera applicazione di tecniche, ma richiede un investimento nella relazione con il pubblico. Tutto questo ci dice qualcosa anche sulle strategie di Instagram, la cui mossa riflette un trend più ampio del mondo digitale: l’intelligenza artificiale sta sostituendo i vecchi strumenti di categorizzazione manuale, privilegiando l’analisi del linguaggio naturale e il comportamento degli utenti. In prospettiva, questo significa che la piattaforma sarà sempre più capace di prevedere cosa ci interessa e proporci contenuti di conseguenza, riducendo l’impatto di tecniche superficiali e spingendo verso un ecosistema più meritocratico (almeno nelle intenzioni dichiarate). La vera leva di crescita sarà pertanto una combinazione di contenuti autentici, interazioni reali, ottimizzazione semantica e narrazioni di valore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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