08.06.2025
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Giovanni Brusca, l’ex boss di Cosa Nostra è libero: fu responsabile della morte di Falcone. La sorella: «Dolore e amarezza». Alfredo Morvillo: resta criminale


Dopo 25 anni di carcere e quattro di sorveglianza, uno dei boss più sanguinari di Cosa Nostra, Giovanni Brusca, è definitivamente libero. Il boia di Capaci, il capomafia che azionò il telecomando che innescò l’esplosione il 23 maggio del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, è autore di circa 150 omicidi.

Maria Falcone: «Dolore e amarezza»

«Come cittadina e come sorella, non posso nascondere il dolore e la profonda amarezza che questo momento inevitabilmente riapre. Ma come donna delle Istituzioni sento anche il dovere di affermare con forza che questa è la legge. Una legge, quella sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni, e ritenuta indispensabile per scardinare le organizzazioni mafiose dall’interno». Lo ha detto Maria Falcone sorella di Giovanni Falcone, ricordando che Brusca «ha beneficiato di questa normativa, ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia che ha avuto un impatto significativo sulla lotta contro Cosa Nostra».

Dove vivrà

Roventi polemiche seguirono la sua scarcerazione e la decisione di sottoporlo alla libertà vigilata. Brusca continuerà a vivere lontano dalla Sicilia sotto falsa identità e resterà sottoposto al programma di protezione.

Perché è libero

A fine maggio sono trascorsi i 4 anni di libertà vigilata impostigli dalla magistratura di sorveglianza, ultimo debito con la giustizia del boss di San Giuseppe Jato che si è macchiato di decine di omicidi e che, dopo l’arresto e dopo un primo falso pentimento, decise di collaborare con la giustizia.

Un criminale

«Brusca torna in libertà? Non ho niente da dire, se non che è stata applicata la legge. Però dico solo che anche da uomo libero, resta un criminale». Sono le parole del giudice Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo, dopo la liberazione di Giovanni Brusca, come prevede la legge sui collaboratori di giustizia.

Chi è

Giovanni Brusca, capomandamento di San Giuseppe Jato, venne arrestato la sera del 20 maggio 1996 in contrada Cannatello, frazione balneare del comune di Agrigento. Nella sua lunga carriera criminale, Brusca – anche detto “lo scannacristiani” – si macchiò di una serie di delitti efferati, che ne hanno fatto uno dei latitanti più ricercati fino alla cattura.

La strage di Capaci e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo

Oltre che per la strage di Capaci, Brusca è stato considerato responsabile dell’organizzazione della strage di via D’Amelio e della pianificazione degli attentati del 1993 a Milano, Roma e Firenze, nonché di avere ordinato il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo – imprigionato per 779 giorni, poi ammazzato e sciolto nell’acido – per vendicare la collaborazione con la giustizia del padre del bambino, il mafioso Santino Di Matteo. Lo stesso Brusca ha più volte ammesso di avere ordinato o partecipato a oltre cento omicidi.

Divenne collaboratore di giustizia

Da sabato scorso Brusca è un uomo libero. Questo perché il boss, in seguito alla cattura, decise di abbandonare i ranghi di Cosa Nostra e affidarsi allo Stato come collaboratore di giustizia.  Brusca ha raccontato ai magistrati le operazioni che contrassegnarono l’organizzazione della strage di Capaci e dell’omicidio del piccolo Di Matteo, fornendo agli investigatori preziose informazioni per ricostruire in modo incontrovertibile l’articolazione del “commando” dei corleonesi di Totò Riina. Ma Brusca andò oltre, chiarendo ai pm i nessi tra la mafia e grossi pezzi della politica democristiana, così come il cambio di strategia di Cosa Nostra alle elezioni degli anni Ottanta, quando Riina – in pieno Maxiprocesso – decise di voltare le spalle alla DC e dare il voto al Partito Socialista, e infine i legami tra la mafia e Forza Italia. Inoltre, Brusca fu il primo pentito a parlare della “Trattativa Stato-mafia”, sostanziatasi nell’invito al dialogo che gli ufficiali del ROS veicolarono, tra la morte di Falcone e quella di Borsellino, ai vertici di Cosa Nostra.

La legge sui benefici penitenziari

La legge sui benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia fu intensamente promossa dal magistrato Giovanni Falcone, memore del grande ruolo che i pentiti di mafia avevano avuto nel Maxiprocesso alla mafia degli anni Ottanta, sfociato in una sentenza definitiva della Cassazione che, il 30 gennaio 1992, mise il timbro sull’impianto accusatorio e sullo strategico utilizzo dei pentiti. Questo approccio culminò nell’approvazione di una normativa ad hoc, la legge 15 marzo 1991, n. 82, che ha previsto la possibilità di ridurre drasticamente la pena – 26 anni di carcere anziché l’ergastolo – in cambio della collaborazione. Inoltre, il provvedimento ha introdotto misure di protezione personale, inclusa la scorta e il programma di protezione estremamente riservato per il soggetto e i suoi stretti congiunti.

La vedova del capo della scorta di Falcone

«Sono 33 anni che noi cerchiamo verità e giustizia, non sappiamo ancora tutta la verità. I processi continuano e Brusca è fuori… Penso che si doveva prendere una posizione ai tempi e fare capire che esiste uno Stato che va rispettato. E’ inutile che continuiamo a commemorare o a fare polemiche per il minuto di silenzio anticipato», dice ancora Tina Montinaro. Due anni fa scrisse un libro dal titolo ‘Non ci avete fatto niente. La lotta alla mafia di Antonio Montinaro e Giovanni Falcone ieri, oggi e domani’, pubblicato da De Agostini. «Noi siamo andati avanti. Una città che è cambiata, i giovani sono cambiati, sono diversi da noi, ci stiamo riappropriando del territorio e quindi è chiaro che io ti dico ‘Non ci avete fatto niente’. A me il sorriso non l’hanno tolto, i miei figli sono cresciuti in questa città che dimostra a tutti e due tantissimo affetto quindi ‘Non ci avete fatto niente’”, ha spiegato la vedova di Montinaro, che ribadisce: «Io sono la moglie di Antonio Montinaro, non la vedova».

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