ROMA Il telefono non smette mai di squillare in serata a Palazzo Chigi. Di ritorno dalla visita alla sede dell’Ansa, per gli 80 anni dell’agenzia di stampa, Giorgia Meloni entra in una girandola di chiamate che la tiene al telefono per ore e ore. La premier sente prima la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, dunque il presidente francese Emmanuel Macron e il Cancelliere tedesco Friederich Merz. Dopo giorni di silenzio — scelta tattica per lasciare che fossero i vertici europei a trattare con Washington in totale autonomia — a 48 ore dalla deadline le cancellerie europee si mettono in moto. E si mette in moto Von der Leyen che, se finora aveva lavorato in solitaria, all’ultimo miglio deve coinvolgere tutti, perché i dazi sono una grana con cui tutti i 27, chi più e chi meno, sono chiamati a fare i conti. La telefonata tra lei e Trump, intanto, è andata bene. E trattandosi del tycoon, riconosce la numero 1 di Palazzo Berlaymont, non era affatto scontato. Le notizie che arrivano sui negoziati in corso però mostrano luci e ombre. Partiamo dalle prime. Sarebbe del 10% il dazio che l’Europa dovrà lasciare sul tavolo dell’export con gli States. Ma, stando alle notizie che filtrano, alcune categorie sarebbero esentate. Tra queste, aerei e alcolici. Musica per le orecchie di Roma, che vedrebbe il vino risparmiato dalla mannaia dei rincari alle dogane. Ma anche e soprattutto per Parigi, che, oltre ad esportare negli Usa champagne, vende agli americani velivoli civili. Passiamo alle ombre. Palazzo Berlaymont vede il rischio concreto che il dazio sull’acciaio rimanga all’attuale livello record del 50%. E tratta per abbassare i balzelli sulle auto, oggi al 25%, o quanto meno esentare alcuni volumi: per il settore dell’automotive, già in profondo rosso, lasciare i dazi invariati sarebbe il colpo di grazia.
Trump rinvia i dazi al 1° agosto, le lettere: a Giappone e Corea tariffe al 25%, 40% per Myanmar e Laos, 30% per Sudafrica
OBIETTIVO 9 LUGLIO
Quanto ai tempi per arrivare a una stretta di mano, per ora a Bruxelles prevale un cauto ottimismo. Il fatto che l’Europa non abbia ricevuto una delle lettere firmate da Trump lascia sperare che ci siano buone possibilità di chiudere entro domani, senza dover attendere il primo agosto, nuova scadenza decisa a tavolino dal tycoon: «L’obiettivo resta quello di trovare un accordo prima del 9 luglio», conferma il commissario Ue all’Economia Valdis Dombrovskis. Bruxelles guarda con attenzione ai precedenti: i soli due accordi firmati finora dal presidente statunitense negli scorsi 90 giorni, con Regno Unito e Vietnam, caratterizzati da un approccio graduale e per comparto. Il rischio del “no deal” tuttavia resta sul tavolo assieme alla rappresaglia che Palazzo Berlaymont per ora ha soltanto deposto nel cassetto. I due pacchetti di contromisure — uno già congelato in primavera e l’altro ancora in fase di finalizzazione — sono pronti a essere sfoderati per una stangata sui prodotti Usa che, nel complesso, potrebbe toccare i 120 miliardi di euro. Inoltre Bruxelles non esclude di mettere in campo strumenti più incisivi per arrivare a colpire anche le major del tech. Difficile però mettere tutti d’accordo in casa. Perché se da un lato c’è chi spinge per una reazione più muscolare — leggi Macron, in buona compagnia di Austria e Spagna — dall’altra c’è chi tenta di scongiurare il muro contro muro. Tra chi vuole tendere la mano evitando lo scontro con gli Usa, Roma fa asse con Berlino.
«Il tempo è una variabile cruciale. Il negoziato è ancora in corso: stiamo costruendo, passo dopo passo, una posizione comune europea», ha fatto sapere il portavoce di Merz. Ed è proprio in questa direzione che vanno inquadrate le telefonate incrociate tra i leader europei. «Lavorano a una linea comune — spiegano dallo staff della presidente del Consiglio — affinché l’Europa parli con una sola voce. Ventisette teste, ma una posizione univoca. Dividersi ora sarebbe un errore. E tutti i leader ne sono pienamente consapevoli». Ed è già qualcosa considerando le tante incognite sul tavolo. Perché con The Donald alla guida della Casa Bianca non è più tempo di certezze. Si naviga a vista, a giorni nella tempesta e altri col vento in poppa. Ecco perché l’uso del condizionale è d’obbligo su un possibile accordo entro domani. «L’ultima parola spetta a Trump». Vale a dire che può ancora accadere di tutto.
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