Una ventata di concretezza. La chiede, a Budapest, Mario Draghi. E la invoca, nelle riunioni coi partner dell’Ue, Giorgia Meloni. Che prima di varcare l’ingresso del nuovissimo stadio della nazionale ungherese, teatro del consiglio europeo informale a casa di Viktor Orban, consegna ai cronisti una citazione di John Fitzgerald Kennedy: «Basta chiedersi cosa gli Stati Uniti possano fare per noi, chiediamoci cosa l’Europa possa fare per se stessa». Tanto più adesso che sulle incertezze e i bizantinismi di Bruxelles sta per abbattersi il ciclone Donald Trump, di cui – ripete la premier – non è il caso di avere paura. Meloni, ancora «non al massimo della forma» dopo la recente influenza (e lo strascico di polemiche con sindacati e Pd), un’idea di cosa dovrebbe fare l’Ue per rispondere alla sfida da Oltreoceano ce l’ha. «La domanda – ragiona in un punto stampa prima del vertice dei Ventisette – è se vogliamo dare agli Stati membri gli strumenti per centrare gli obiettivi che ci siamo posti».
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Obiettivi ambiziosi, come il rilancio della competitività già al centro del report del suo predecessore a Palazzo Chigi. E l’avvio di una Difesa comune, che richiede, oltre alla volontà politica, investimenti sostanziosi. Eccoli, i due elefanti nella stanza del summit ungherese. Per i quali «la questione che va affrontata – mette in chiaro Meloni – è quella delle risorse». La premier italiana ne è convinta: se vuole rendersi indipendente dagli Usa, il Vecchio continente deve «investire di più in Difesa», magari fino a quel 2 per cento del Pil chiesto ai suoi membri dalla Nato. Ma – ed è qui che si registra una differenza di accento con le parole usate da Draghi – «gli investimenti necessari sono molti, servono gli strumenti per poterli fare». Perché «non sono disposta a prendermela con i cittadini e i lavoratori italiani: non possiamo gettare i soldi dalla finestra». Tradotto: con le regole attuali, aumentare di molto il budget destinato ai sistemi difensivi rischia di essere impossibile, come già sottolineato 24 ore prima da Giancarlo Giorgetti.
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Il patto
Piuttosto occorre «riaprire prima o poi il dibattito sul patto si stabilità», avverte la premier. Regole rinnovate di recente dopo faticosissime trattative, ma – esorta Meloni – «l’Italia ha già posto il tema: va fatto molto di più». Magari scorporando dal deficit gli investimenti in Difesa. O aprendo a nuovi finanziamenti con debito comune tanto inviso ai “frugali” come Germania e Olanda. Temi sul tavolo del consiglio informale, sui quali però l’Ue fatica a parlare con una voce sola.
C’è poi il nodo guerra, e i timori di Zelensky su un prossimo disimpegno americano benedetto da Orban. «Finché ci sarà una guerra l’Italia rimarrà a fianco dell’Ucraina», rassicura Meloni. «Se oggi se si va verso uno scenario di pace è per il coraggio straordinario» di Kiev e «dell’Occidente che l’ha sostenuto». Salvo aggiungere poi che «vedremo come evolve lo scenario», alla luce dell’insediamento di Trump e dei suoi annunciati colloqui con Putin.
Chissà che a questo proposito Meloni non possa far sentire la sua voce con la nascente amministrazione americana attraverso «l’amico Elon Musk» destinato a un ruolo di primo piano nel futuro gabinetto del tycoon. Per la premier il patron di Tesla e SpaceX rappresenta «un valore aggiunto, in questo tempo»: un pioniere che «ha fatto cose straordinarie». E che nei prossimi mesi dovrà essere «un interlocutore con cui confrontarsi». Anche per Palazzo Chigi.
Le conclusioni
Inevitabile poi – non prima di un botta e risposta con Elly Schlein e la sua «sinistra al caviale» – un passaggio sull’immigrazione. Perché sul modello Albania e il decreto Paesi sicuri pende un ricorso alla Corte di giustizia europea. E tra i leader «c’è un po’ di preoccupazione», racconta Meloni, per il fatto che «secondo alcuni i governi non sono nella condizione di poter definire cosa sia uno Stato sicuro». Se così fosse ogni possibilità di contrastare i flussi illegali «sarebbe compromessa».
Il tema migranti in ogni caso nella dichiarazione finale dei Ventisette non compare. Le conclusioni del summit, passate da quattro riscritture e dunque molto annacquate rispetto alle intenzioni originarie, si limitano ad «accogliere con favore» i report di Enrico Letta e Draghi su mercato unico e competitività. E a tal proposito anticipano una nuova «strategia orizzontale nuova e globale» che la Commissione dovrà presentare a giugno. Si elencano 12 «direttrici» per i prossimi mesi per «rilanciare la competitività», obiettivo per il quale saranno in campo «tutti gli strumenti». La consapevolezza dell’urgenza c’è: «Lo status quo – si legge – non è più un’opzione». Chissà se nei prossimi mesi arriverà anche la concretezza chiesta a gran voce da Draghi e Meloni.
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