Serbatoi di accumulo, invasi, dighe. Passa da qui la prima risposta alla crisi idrica. In un Paese come l’Italia in cui precipitano circa 300 miliardi di metri cubi d’acqua l’anno, di cui solo 30-35 miliardi vengono effettivamente prelevati. Con divari che penalizzano soprattutto il Sud e le Isole. E un cambiamento climatico che riscrive le priorità dell’agenda politica: è l’Italia il sedicesimo paese più colpito da siccità e ondate di calore nel mondo.
IL FOCUS
«Nonostante l’Italia sia tra i paesi che più beneficiano delle precipitazioni, solo una piccola parte viene utilizzata», spiega al Messaggero Erasmo D’Angelis, tra i maggiori esperti in materia di acque e infrastrutture idriche. «Dal prelievo all’utilizzo si registrano quasi 7 miliardi di metri cubi di perdite», appunta l’ex capo della struttura di missione per il dissesto idrogeologico “Italia Sicura”, sottolineando che dei 26,6 miliardi di metri cubi che vengono poi effettivamente utilizzati, il 53% è destinato all’agricoltura, il 21% al settore industriale per favorire il raffreddamento dei macchinari e il 20% arriva nelle abitazioni per mezzo del servizio idrico integrato. Le infrastrutture idriche e il loro stato di manutenzione sono il tasto dolente dietro perdite così ingenti. «Dei 500mila chilometri di rete idrica, quasi il 60% risale tra i 50 e i 100 anni fa». Ma per infrastrutture si intendono anche le dighe e gli invasi, necessari per aumentare la capacità di accumulo fondamentale nelle fasi di crisi e in siccità.
LE DIGHE
Nelle 531 dighe esistenti in Italia, il volume invasabile autorizzato si aggira intorno ai 13 miliardi e mezzo di metri cubi d’acqua, mentre quello realmente stoccato si ferma a 8,8 miliardi: «Abbiamo un deficit strutturale di stoccaggio che deriva anche dall’accumulo di sedimenti nelle dighe», spiega D’Angelis, sottolineando l’importanza di dare continuità agli investimenti su questo tipo di infrastrutture, ad esempio inserendoli all’interno delle leggi di bilancio. Lo scenario, sul fronte del della severità idrica, d’altronde, è variegato: in base all’ultimo aggiornamento Ispra, di novembre, il Nord (che include il distretto del Fiume Po, quello delle Alpi Orientali e il distretto dell’Appennino settentrionale) è in uno stato di normalità, ovvero in grado di soddisfare le esigenze idriche.
Situazione di medietà per i distretti Centrale, Meridionale e e per la Sardegna: qui lo stato di criticità si intensifica in quanto le portate in alveo risultano inferiori ai valori tipici del periodo. Bollino rosso, infine, per la Sicilia, dove «prevale uno stato critico non ragionevolmente prevedibile», si legge nel rapporto. Sull’ “Isola del Sole”pesa anche la mancata applicazione della legge Galli del 1996 per il servizio idrico integrato che acuisce i divari infrastrutturali. Nessuna regione, però, può dirsi al riparo, come dimostra la grande siccità del 2022 che ha messo in crisi metà della penisola italiana. Fasi di emergenza che, in alcuni casi, hanno anche prodotto dei miglioramenti: dalla siccità che nel 2016-2017 ha colpito Roma «Acea è riuscita a ridurre le perdite dal 45% al 24-25%circa», ricorda sempre D’Angelis. Al fianco dell’accumulo di acqua, resta anche la pratica della depurazione: l’acqua così recuperata potrebbe essere utilizzata nel settore industriale e agricolo, con la possibilità di ricorrere alla dissalazione nei casi di emergenza.
IL CLIMA
A incentivare l’attenzione sulla gestione idrica è il cambiamento climatico. Secondo quanto emerge dal Climate Risk Index, il rapporto sul grado di impatti del cambiamento climatico nei singoli Paesi, presentato alla COP30 di Belém dall’organizzazione Germanwatch, l’Italia è al sedicesimo posto tra i Paesi più colpiti dalle ondate di calore, preceduta dalla Francia al dodicesimo posto e seguita dagli Usa al diciottesimo. In totale, l’indice registra oltre 9.700 eventi meteorologici estremi tra il 1995 e il 2024, che hanno provocato più di 830mila vittime e danni diretti per oltre 4.500 miliardi di dollari, al netto dell’inflazione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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