12.11.2025
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«Con Martina Colombari una storia finita per la pressione mediatica. Un figlio? Sarebbe un sogno»


Alberto Tomba ha scritto un libro, “Lo slalom più lungo”. Un’autobiografia. Un libro che racconta una persona che non si è mai vista. «Semplicemente — racconta in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera — perché ero, e sono, molto diverso da come mi avete descritto. Ho sempre odiato quando mi chiamavano sbruffone. Detestavo essere definito guascone». Anche se Alberto per salutare i tifosi prendeva lo skilift al contrario e tra una manche e l’altra si mangiava una fetta di panettone. Forse per questo la gente adorava Alberto. «E io adoravo loro. I miei più grandi fan sono ancora adesso i miei più grandi amici. Enza, che quando miruppi la clavicola in SuperG a Lech, in Austria, pianse. Loris, l’inventore di Tombaland. Chicco, che mi seguiva pure in Giappone. Claudio, il fotografo del gruppo, per cui ho girato il podio».

Il racconto al Corsera si fa interessante. «Da Castel dei Britti portavano i salumi, dall’Appennino piadine, crescentine, tigelle… Con il giro stretto ci vediamo ogni due mercoledì. Ogni anno ci ritroviamo in tanti per festeggiare una ricorrenza, nel 2026 saranno i trent’anni dei Mondiali di Sierra Nevada. Ma ci siamo trovati anche per ricordare Furio Focolari, che non c’è più, insieme con sua figlia…». Amico di tutti i telecronisti meno di altri: «Il campione doveva essere montanaro, silenzioso. Il bolognese, il cittadino, il carabiniere, dava fastidio. Non soltanto ai giornalisti. Al sistema».

Ha vinto tanto, poteva vincere di più ma allora c’era la combinata, regolamenti che lo danneggiavano. Ma lui, Alberto, alla fine è contento così. E oggi si può descrivere per come è: «un timido.

E lo sono tuttora».Le discoteche? «Frottole. Mi sottoponevo ad allenamenti massacranti». Tra le tante bugie raccontate sul suo conto anche quella di aver promesso a sua mamma di non correre la libera. «Neanche questo è vero. In allenamento andavo a centoventi all’ora, facevo salti di cinquanta metri. Non avevo paura. Certo, ero uno slalomista, non un discesista. Ho visto troppe carriere stroncate, gambe rotte, vite sportive distrutte. Sono stato il primo a indossare il casco, anche in gigante: passavo molto vicino ai pali e rimediavo craniate pazzesche. Mi prendevano in giro; adesso il casco lo portano tutti. E comunque, dopo la caduta e la frattura, sono tornato a fare i SuperG», racconta ancora ad Aldo Cazzullo al Corsera.

Quando scendeva lui, l’Italia si fermava per stessa ammissione del presidente della Repubblica di allora Francesco Cossiga: «Mi disse che era un mio grande tifoso, che spostava gli appuntamenti politici per seguire le gare. Tornai da Roma a Bologna con un mio concittadino: Enzo Biagi. Era un’Italia di grandi personaggi». Per lo speciale fermarono la finale di Sanremo. «E dire che all’epoca c’erano davvero belle canzoni. Meno male che ho vinto».

C’era lui e c’era anche Deborah Compagnoni. «Siamo sempre stati amici. Quando si ruppe il ginocchio nel gigante di Albertville 1992, dopo aver vinto l’oro in SuperG, le telefonai. Di solito gli atleti sono scaramantici, non parlano volentieri di infortuni. Ma sentivo il bisogno di starle vicino. Così le dico: “Dobbiamo vederci per festeggiare”. Come festeggiare? “Dimentichi che io e te abbiamo vinto due medaglie d’oro olimpiche”».

Al quotidiano di Via Solferino non nasconde che per lui il look era importante: «Lo riconosco: la fascia, gli occhiali. Facevo attenzione ad abbinare il colore della tuta e quello degli scarponi». Ma Tomba faceva notizia anche senza sci indosso. «Se le notizie non c’erano, se le inventavano. Scrissero che avevo una storia con Katarina Witt, la pattinatrice, solo perché a Calgary ero andato a vedere la sua gara. Mi chiamavano Sex Bomb… che stupidaggini. Gioele Dix mi imitava salutando le ragazze: “Bella gnocca!”. Ma non è vero, non mi sono mai permesso». E poi: «Arrivarono a fotografarmi nudo in sauna, e a pubblicare le immagini. Una vigliaccata».

Impossibile non parlare di Martina Colombari: «Ero giurato a Miss Italia. Vinse lei, a mani basse. Era bellissima, e fu una storia bellissima. Non aveva ancora la patente, la andavo a prendere a scuola… È durata quattro anni». Una storia finita a caua della «troppa pressione mediatica. Sempre i riflettori addosso. Mai un poco di privacy. Io ero sempre in giro, lei aveva avuto successo nel suo mestiere. Ci vedevamo poco».

Poi ammette: «Un figlio sarebbe un sogno. Ma quanti matrimoni finiscono prima del tempo? Quante coppie sono saltate? Il novanta per cento? Viaggiavo tanto, come i marinai… Ma non sposarmi non è stata una scelta».

A Cazzullo, Alberto Tomba spiega le ragioni del suo ritiro a 31 anni: «Ero stanco. Stressato. Gli allenamenti, le gare, i viaggi in macchina. La pressione continua. Dover vincere sempre. Alla prima caduta diventavo Alberto Tombola. I francesi scrivevano: “Tomba est tombé”. La macchina della notorietà. Non ti serve il body guard, ma l’avvocato, il commercialista… Io ero umile, semplice, genuino; ma qualcuno, pur di vendere, scriveva il contrario. Però smettere non è facile». Alberto è convinto di aver scelto il momento giusto per farlo. «Lasciare quando sei in vetta, non mentre stai precipitando. Io ho lasciato dopo aver vinto la mia cinquantesima gara di Coppa del Mondo. Per il fan club, cinquanta più una: il parallelo in cui battei Zurbriggen, quello che non valeva per la classifica». Ha mai pensato di tornare? «Un pensierino l’ho fatto per le Olimpiadi di Torino. Ma avevo già trentanove anni, ero fermo da troppo tempo. Così ho fatto il tedoforo. Entrare nello stadio con la torcia, ascoltare il boato della folla, è stato stupendo».


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