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Caso Almasri, risposta all’Aia: «Ministero non avvisato»


ROMA Il ministero al “buio”, avvisato a cose fatte. Imprecisioni ed errori nel mandato d’arresto, tanto da renderlo radicalmente nullo. Muove da qui la memoria difensiva che il governo ha inviato ieri alla Corte penale internazionale sulla mancata consegna di Njiiem Osama Almasri, il generale libico fermato nel gennaio scorso a Torino su ordine della Corte dell’Aia, scarcerato e rimpatriato dopo una manciata di giorni su un volo di Stato. Il rilascio del famigerato capo del “carcere dell’orrore” di Mitiga ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati dei vertici del governo, premier compresa, dando fuoco alle polveri di un nuovo e durissimo scontro con la magistratura e a una battaglia senza esclusione di colpi con le opposizioni. La difesa del governo — a cui Palazzo Chigi ha lavorato di concerto con via Arenula — è partita ieri, alla vigilia della deadline fissata dopo il rinvio chiesto da Roma. L’atto, che riassume la posizione dell’esecutivo nell’affaire Almasri, è ora all’attenzione dei giudici con base nei Paesi Bassi che accusano l’Italia di non aver eseguito il mandato d’arresto, di non aver perquisito il torturatore libico, di non aver sequestrato i dispositivi in suo possesso e di aver sperperato denaro pubblico rimpatriandolo a Tripoli a bordo di un aereo dell’intelligence. Una condotta che il governo giudica lecita, anche per via degli strafalcioni contenuti nel mandato d’arresto. A partire dalle date sbagliate e in contraddizione tra loro, che avrebbero tenuto con le mani legate il Guardasigilli Carlo Nordio.

GLI ERRORI

Nella memoria, stando a fonti di governo, viene ribadito con toni meno ruvidi quanto affermato dal ministro della Giustizia nell’informativa in Parlamento del febbraio scorso. Una posizione che aveva mandato su tutte le furie le opposizioni, con Giorgia Meloni chiamata a gran voce a metterci la faccia. In sostanza, il numero uno di via Arenula aveva sostenuto che l’arresto del generale libico era avvenuto senza una preventiva consultazione con il ministero, con l’aggravante che il mandato della Corte penale internazionale conteneva «gravissime anomalie» e dunque era «radicalmente nullo». Nordio aveva richiamato la legge 237 del 2012, che regola i rapporti di cooperazione tra lo Stato italiano e la Corte penale internazionale facendo del suo dicastero il ponte «in via esclusiva» tra Roma e l’Aia. Ma nel caso Almasri, la difesa di Nordio, via Arenula era stata tagliata fuori fin dall’inizio. Nella ricostruzione resa dal ministro, la notizia informale dell’arresto — avvenuto a Torino alle 9.30 del 19 gennaio — «venne trasmessa da un funzionario Interpol a un dirigente del nostro ministero alle 12,37». Solo il giorno dopo, lunedì 20 alle 12.40, il procuratore della Corte d’appello di Roma aveva inviato «il complesso carteggio». Alle 13.57 l’ambasciatore italiano all’Aia aveva dunque trasmesso al ministero la richiesta di arresto. La comunicazione della questura, ha spiegato a febbraio Nordio, «era pervenuta al ministero ad arresto già effettuato e, dunque, senza la preventiva trasmissione della richiesta di arresto a fini estradizionali emessa dalla Cpi al ministro». Sul punto, la Corte aveva assicurato di aver avviato il «dialogo con le autorità italiane per garantire l’efficace esecuzione di tutte le misure richieste dallo Statuto di Roma per l’attuazione della richiesta» di arresto. Dura la reazione del ministro: il dicastero non ha un ruolo da mero «passacarte», ma è un «organo politico» che analizza e valuta prima di assumere decisioni. E mentre via Arenula valutava il da farsi, la Corte d’appello di Roma scarcerava il libico, rilevando «irritualità» nell’arresto, perché «non preceduto dalle interlocuzioni con il ministro della Giustizia», che, interessato il giorno prima dalla stessa Corte, «non ha fatto pervenire alcuna richiesta in merito». Nessuna negligenza, per Nordio, tanto più che nel documento della Cpi «c’erano tutta una serie di criticità che avrebbero reso impossibile un’immediata richiesta alla Corte d’appello». La parola passa ora ai giudici dell’Aia e non è affatto detto che la vicenda si chiuda qui. Se le ragioni dell’Italia non dovessero convincere, potrebbero rinviare il dossier all’Assemblea degli Stati parte oppure al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Una bella grana per Meloni e i suoi.

Ileana Sciarra

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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