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«Agito come per Cecilia Sala»


Una difesa netta, granitica, che assume i tratti di un atto d’accusa. Durissimo. E che bolla come «irricevibile», «illogica», «piena di inesattezza» e gravata da «pregiudizio», la richiesta del Tribunale dei ministri di autorizzazione a procedere nei confronti dei vertici del governo — esclusa la premier Giorgia Meloni — per il reato di favoreggiamento sul caso Almasri, il torturatore del carcere di Mitiga arrestato in Italia il 19 gennaio scorso, liberato e rispedito in patria su un volo di Stato. Al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e al ministro Matteo Piantedosi la Procura di Roma, Collegio per i reati ministeriali, ha contestato anche il reato di peculato, mentre al Guardasigilli Carlo Nordio è stata addebitata, in aggiunta al favoreggiamento, l’omissione di atti d’ufficio. Nella memoria difensiva, arrivata ieri alla Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, Giulia Bongiorno — legale di grido ma anche senatrice in quota Lega — ribatte con veemenza, punto per punto, scudando la posizione dei suoi assistiti. E non solo. Perché nelle 23 pagine di memoria difensiva viene messo nero su bianco anche il cosiddetto “scudo laico” per il capo di gabinetto del ministero della Giustizia, Giusi Bartolozzi, accusata di aver reso “false informazioni” ai giudici, attraverso un racconto che il Tribunale dei ministri ha bollato come “mendace”.

PROCESSO MEDIATICO
Non solo il governo difende a spada tratta quelli che in molti hanno etichettato, sprezzanti, come la “zarina” di Nordio, ma fa di più: accusa chi la chiama in tribunale di avere il «manifesto obiettivo di far celebrare un processo ordinario per una ipotesi di reato ministeriale, nel quale far sfilare, mediaticamente ancor prima che giudizialmente, co-imputati e testimoni», si legge nella memoria. Vale a dire: si colpisce Bartolozzi per affondare Meloni e i vertici di governo, trascinando la premier e la sua squadra in tribunale dove la Giunta per le autorizzazioni non consentirà mai loro di arrivare, opponendo un secco no alla richiesta dei magistrati. Ma veniamo al perché il governo decise di rilasciare Almasri, in barba al mandato di arresto della Corte penale internazionale che gravava sulla testa dell’uomo, terrore del carcere di Mitiga. Dietro la decisione dl governo, scrive Bongiorno, il «preminente interesse di salvaguardare la sicurezza nazionale, unitamente alla incolumità e alla libertà personale delle centinaia di cittadini italiani presenti in Tripolitania all’epoca dei fatti». Perché vi era, scrive Bongiorno richiamando il grido d’allarme del direttore dell’Aise Giovanni Caravelli, «una minaccia cogente», con il rischio concreto «che fossero commessi atti di ritorsione contro cittadini italiani e contro interessi economici strategici». Il governo agì come nel caso di Cecilia Sala, la giornalista italiana detenuta in Iran e liberata dopo 20 giorni di prigionia durissima, il rilascio dell’ingegnere dei droni Abedini come “merce di scambio”. Ma il Tribunale di Roma, punta il dito Bongiorno, «nega analogie, perché — dice — lì il pericolo non c’era. È un singolare iter logico», sembra quasi prendersi gioco dei magistrati il governo nella memoria difensiva, richiamando l’esempio di un agente a cui non basta avere un’arma carica di un rapinatore puntata contro per essere considerato in pericolo. È necessario colpirlo.

RAGIONI DI SICUREZZA
Nel documento — in cui si rimprovera alle toghe di non aver sentito Mantovano e di aver trascinato la vicenda oltre i sei mesi in spregio ai 90 giorni previsti per chi ha responsabilità di governo — si bacchettano i magistrati di aver ignorato i motivi per cui la consegna di detenuti stranieri avviene su voli di Stato per ragioni di sicurezza che Bongiorno elenca una ad una. Non ultima la necessità di essere accompagnati da poliziotti armati «che più di una compagnia aerea non permettono salgano a bordo». Un affondo poi sulla decisione di archiviare Meloni: «superfluo ogni commento». E una chicca: senza mai citarlo per nome, il governo chiama in causa Putin e l’eventuale scelta di non arrestarlo semmai accettasse di negoziare la pace in «Italia o in Città del Vaticano». La scelta di non far scattare le manette «è funzionale alla valutazione della preminenza dell’interesse pubblico rispetto alla esecuzione del provvedimento della Cpi». Varrebbe per Putin, è valso per il torturatore Almasri.


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